Avevamo un sogno

24
Dic

A partire dal “Patto delle catacombe”, riflessioni e domande su cosa vuol dire oggi sognare una Chiesa povera e dei ministeri

La notte è buia e il freddo penetra fino alle ossa ma il cuore è caldo e ribolle di gioia. Mi sembra di vedere qualcuno nella penombra e di sentire le loro voci che sussurrano prima di entrare insieme sull’altare per celebrare l’eucaristia in un luogo profetico e tremendo al tempo stesso. Oggi è l’11 novembre 1965 e nelle Catacombe di Domitilla a Roma si incontra il gruppo conciliare denominato “la chiesa dei poveri”. Il concilio Vaticano II è quasi giunto al termine della quarta sessione ma alcuni padri conciliari sentono la necessità di stipulare un patto che lascerà il segno nella storia. I fondatori sono Giacomo Lercaro, dom Helder Camara, il patriarca Maximos IV e con loro un’altra quarantina di vescovi che sottoscrivono il “patto delle catacombe”, un patto di povertà e di scelta dei poveri, al quale aderiranno nei giorni seguenti oltre cinquecento vescovi presenti al Concilio. Il discorso di Lercaro rievoca la scena del Vangelo di Luca, capitolo 4, quando Gesù entrato nella sinagoga di Nazaret svela di essere l’Unto che è venuto finalmente ad “annunziare ai poveri il lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista e per rimettere in libertà gli oppressi”. Ecco il cuore che batte. Allora è vero che il mondo è ribaltato e i destinatari principali del messaggio messianico sono i poveri. Dieci anni dopo il concilio questa scelta fondamentale si ritrova in America Latina con Medellin e, finalmente nella prima esortazione apostolica di papa Francesco, Evangelii gaudium e di nuovo in Querida Amazonia, nel famoso “sogno ecclesiale”.

Era solo un sogno? Questa Chiesa-popolo-comunità che ascolta il grido dei poveri e sceglie la fraternità come stile era solo un sogno? Sono ormai passati cinquant’anni dalla chiusura del Concilio e io mi chiedo, semplice cristiano senza qualifiche, se oggi questo sogno si è avverato o mai si avvererà. Me lo chiedo quando entro in una chiesa del nord Italia la domenica mattina e faccio fatica a seguire la messa. Sarà l’abitudine, sarà che non conosco nessuno, sarà che il prete più che altro mi fa la predica, quasi sempre lunga e noiosa. Sarà che poi me ne torno a casa bello tranquillo, indisturbato direi nel mio stile di vita che dei poveri preferisce non avvertire la presenza. Me lo chiedo quando ascolto i miei figli parlare delle “cose di Chiesa” come di un mondo lontano e sostanzialmente non utile o almeno certamente non interessante. Ma non li avevo mandati tutti a catechismo per un paio di cicli obbligatori con tanto di sacramenti connessi? Ma non li avevo mica obbligati tutti a venire a Messa la domenica mattina per poi vederli svanire dopo la terza media? Ma cosa avranno capito del catechismo? Cosa conosceranno veramente del Vangelo? E quella scena di Luca 4, quando mai è entrata come un urgano nel loro cuore? Dove abbiamo sbagliato, come padre e come madre, nella “educazione cattolica” dei nostri figli, tutti bellissimi ragazzi speciali ma lontani mille chilometri dal leggere la loro vita personale in stretta connessione con il Vangelo di Gesù?

Era un sogno quella Chiesa dei poveri e dei ministeri? Me lo chiedo quando non riesco a parlare con il mio parroco perché ha troppo da fare, poveretto. Certo perché il mazzo di chiavi lo tiene lui e ancora oggi devo chiedere a lui il permesso se voglio fare qualcosa in parrocchia. Perché, se il suo compito principale è di presiedere l’eucaristia e confessare? Perché se una comunità deve spendere dei soldi, magari per i poveri, deve chiedere il permesso al parroco? Ma questa chiesa di popolo non doveva essere “marcatamente laicale”? Ma se è vero che il mio battesimo, e poi la prima comunione e la mia cresima, mi hanno introdotto pienamente nella comunità dei discepoli, perché devo chiedere il permesso? E chi ha detto che tocca al parroco fare il conto economico di questa parrocchia, quando molto spesso non ha mai fatto un budget in vita sua? Chi l’ha detto che il programma pastorale di questa parrocchia lo deve timbrare il parroco?  Dai ragazze, suore, donne, non scherziamo! È arrivato il momento di prendere il “coraggio” a due mani, di entrare nella sinagoga di Nazaret, alzarsi in piedi e proclamare che questo sogno si è avverato, ora, oggi, qui: il Vangelo è dei poveri e questo annuncio è la luce che nella notte illumina il mondo. Ora scegliamo la fraternità, anzi la “mistica della fraternità” (EG 87) che privilegia la relazione alle strutture ormai deserte che concediamo in affitto ai corsi di ballo brasiliani. La potenza soprannaturale della fraternità è semplice e la capisce anche un bambino: io senza di te non posso vivere! Io, singola donna o uomo o bambino, senza la comunità sono morto e la relazione con l’altro, l’inaspettato che mi viene incontro, il diverso che non conoscevo sono per me l’unica salvezza. Ecco il “povero” che non è l’altro, ma sono io. L’annuncio di Gesù nella sinagoga non è fatto agli altri ma a me e il mio primo compito non è di fare agli altri l’annuncio ma di dire agli altri che l’annuncio è stato diretto personalmente a me. Allora sì che nasce la Chiesa dei ministeri, dove ciascuno non ha un compito prestabilito ma vive nella speranza di incontrare l’altro. Non si interpretano dei ruoli più o meno arrangiati su un modello clericale che riproduce una forma organizzativa verticale e, sostanzialmente, di potere. La suora non fa la suora, ma vive la sua consacrazione di donna appassionata dello Sposo in una relazione originale che genera una fraternità speciale, ditemi voi quale. Il prete non fa il prete, ma vive la sua ordinazione nella dimensione orizzontale della comunità ascoltando l’altro come fonte principale della sua vocazione, e si salva solo grazie all’altro. Il laico non fa il galoppino ma prova a scoprire se il vangelo modifica davvero la sua vita, i suoi affetti, i suoi soldi invece di fornirgli una pseudo attività pastorale domenicale, prima e dopo il centro commerciale. Sarebbe bello. E non impossibile. Avete l’ansia del risultato? Ascoltate qui: “Attraverserò la vita senza lasciare nessun segno incisivo, nessun marchio duraturo e indelebile. Scriverò qualche articoletto su due o tre riviste, forse scriverò un libro che sarà letto da qualche centinaio di persone. Farò qualche predica che riceverà più o meno elogi… e morirò. Al mio funerale qualcuno dirà che non ho prodotto tutto quello che avrei potuto produrre” (Helder Camara).

Alberto Porro

Leave a Comment