L’appartenenza a un popolo è un viaggio che dura una vita intera, e un’esperienza che plasma la fede e la teologia
Sono nata in una famiglia di migranti dalla Sicilia e dal Salento verso Milano. Nel mio tempo di adolescente ho incontrato, in una giornata missionaria durante le predicazioni in chiesa e negli incontri con i ragazzi e ragazze dell’oratorio, i missionari comboniani. Ho iniziato così a frequentare la loro proposta di formazione missionaria per giovani, percorso che ho fedelmente vissuto per cinque anni. Non mi ero mai domandata nei miei anni di adolescenza e frequentazione dell’oratorio in un quartiere di classe media milanese la mia identità popolare. Però quando avevo sedici anni un missionario comboniano mi ha indicato che il cammino della sequela di Gesù e del suo Vangelo era percorrere i tunnel della stazione centrale alla ricerca e nel servizio delle persone in situazione di strada. Erano quelli gli anni Ottanta, tempo in cui in Italia iniziavamo a vivere l’esperienza di avere persone che arrivavano dall’Africa del nord alla ricerca di una vita degna e lavoro.
Ho vissuto così i miei anni di scuole superiori, tra catechesi biblico-missionarie e l’impegno concreto tutti i fine settimana di attraversare a piedi il tunnel che portava allo spazio che accoglieva le persone in situazione di strada e di enorme fatica. Ascoltare le storie di vita, preparare in cucina l’alimentazione, pregare insieme, accogliere altre esperienze di respiro religioso, mi aiutava anche ad avere un impegno politico a scuola.
Rileggendo dopo quaranta anni questo mio tempo, con “memoria grata”, mi visita l’umile chiarezza che in quel tempo di giovinezza ho iniziato a fare la profonda ed identitaria esperienza di essere Popolo, di appartenere ad un Popolo.
Scrivo il tuo nome, Popolo, sempre con lettera maiuscola. Questa è un’affermazione poetica e mitica del premio Nobel di terra Amerindia per la letteratura Pablo Neruda. Per me e nella mia vita missionaria questa non è solo un’affermazione mitica e poetica, è un’affermazione di fede “mistico-politica”.
Stavo ancora studiando teologia quando sono partita per la prima volta a ventitré anni e uno zaino rosso sulle spalle per tre mesi di esperienza missionaria in un’occupazione di terra e un picchetto di lungo sciopero di fabbrica alla periferia di una grande città del Brasile. Tutte le baracche dove vivevamo erano fatte da tavole riutilizzate di legno di mille colori. Le nostre baracche nell’occupazione erano state costruite in palafitte sulla palude dello scarico della città con le mani ed il lavoro comunitario, popolare. Anche io cercavo sempre di non affondare portando sulla testa le tavole di povero legno per aiutare a costruire i primi ripari su palafitte dell’occupazione. Non parlavo portoghese, imparavo ogni giorno con la gente i primi vocaboli, condividendo nell’improvvisata cucina comunitaria riso e fagioli, nelle riunioni di comitato di quartiere che stava sorgendo e nel sindacato per l’organizzazione dello sciopero e del picchettaggio della grande industria metallurgica della città. La sera mi sedevo stanchissima al circolo biblico dove condividevamo la vita della giornata, con preghiera semplice animata da una ministra della comunità, ascoltando racconti di Vangelo e impegnandoci per l’organizzazione della lotta e della resistenza per il giorno seguente. Non parlavo ancora la lingua di quella gente, ma stavo, giorno per giorno con i calli alle mani e i piedi inzuppati di fango, abbracciando il loro Corpo, diventando Corpo di Popolo, per me cristiana, Corpo di Cristo.
Ai ventitré anni giovane studente di teologia, milanese, sono arrivata in Brasile. Ai ventisette ci sono rimasta fino ad oggi, trent’anni di vita di donna laica e missionaria imparando ad essere Popolo in una profonda amicizia sociale.
Con gioia ho letto le parole del programma pastorale del papato sinodale di papa Francesco. C’è un paragrafo che ho imparato a memoria perché parla profondamente alle parole di gratitudine che la mia Anima, tutta tessuta di Corpo ha rispetto al regalo che la vita e l’impegno di Vangelo e di lotta mi ha regalato facendomi Popolo. “A volte sentiamo la tentazione di essere cristiani mantenendo una prudente distanza dalle piaghe del Signore. Ma Gesù vuole che tocchiamo la miseria umana, che tocchiamo la carne sofferente degli altri. Aspetta che rinunciamo a cercare quei ripari personali o comunitari che ci permettono di mantenerci a distanza dal nodo del dramma umano, affinché accettiamo veramente di entrare in contatto con l’esistenza concreta degli altri e conosciamo la forza della tenerezza. Quando lo facciamo, la vita ci si complica sempre meravigliosamente e viviamo l’intensa esperienza di essere popolo, l’esperienza di appartenere a un popolo” (EG 270).
Ricordo quando per la mia presenza laica e missionaria in Brasile mi è stato chiesto dal consiglio diocesano delle comunità che già seguivo e servivo da anni di aiutare nella coordinazione di pastorale della diocesi dove vivevo. Uno degli impegni oltre alla formazione biblica delle comunità e degli agenti di pastorale, ministri e ministre, ordinati e non, era quello di promuovere un processo sinodale, di cammino comune, per la stesura di un piano di pastorale. Percorrendo le tante strade di terra, polvere e ghiacciate invernali, perché vivevo nella zona più fredda del Brasile che vede mesi di gelate e temperature sotto lo zero, ascoltavo e il mio corpo si faceva Corpo con questo popolo, il Corpo di Cristo.
Essere Popolo e fare teologia con il Popolo che fosse un vivere l’esperienza di Dio liberatore nella sequela di Gesù e del Vangelo ha voluto dire entrare in un processo comune, lento e spesso difficile e non occupare spazi di potere “sopra” ma essere comunità, Territori di Anima tutta tessuta di Corpo sociale e comunitario. Popolo della Terra dell’Albero del Popolo libero. Noi, respiro di Gesù di Nazareth, il Cristo cosmico. Noi, Corpo di Chiesa in evangelizzazione, dove nessuno è così ricco che non abbia nulla da ricevere e nessuno è così povero che non abbia niente da dare. Ecologia integrale. Teologia con e del Popolo. Umanità fatta di Terra. Amen e continuiamo amando.
Maria Soave Buscemi