Al principio del dialogo c’è l’incontro

20
Gen

Che spazio c’è per il dialogo nel tempo del ritorno del sacro sulla scena dell’odierno villaggio globale e del pluralismo religioso? La novità, mi pare, è che, dopo anni di pressoché sostanziale impronunciabilità, la parola dialogo sta riprendendo a suonare con buona frequenza nel linguaggio ecclesiale. Posto in sott’ordine il mantra dei pericoli del relativismo, è papa Francesco ad aver fornito un contributo essenziale a tale svolta, con una serie di gesti e di discorsi che, in continua sequenza, hanno fatto presagire l’avvio di una nuova stagione per il dialogo.

Un passaggio importante e poco rimarcato dai media ha riguardato il suo discorso in occasione dei cinquant’anni del Pontificio Istituto di Studi Arabi e Islamici (PISAI), prestigiosa struttura accademica che nei decenni ha formato centinaia di presbiteri, laici e missionari preparati al confronto con il mondo islamico, il 24 gennaio 2015. Esso “esige pazienza e umiltà – ha sostenuto – che accompagnano uno studio approfondito, poiché l’approssimazione e l’improvvisazione possono essere controproducenti o, addirittura, causa di disagio e imbarazzo… Forse mai come ora si avverte tale bisogno, perché l’antidoto più efficace contro ogni forma di violenza è l’educazione alla scoperta e all’accettazione della differenza come ricchezza e fecondità”. In quel frangente Bergoglio utilizzò anche un’immagine simbolicamente assai eloquente: “Al principio del dialogo c’è l’incontro e ci si avvicina all’altro in punta di piedi senza alzare la polvere che annebbia la vista”.

In decenni di dialogo interreligioso, più o meno faticoso, di polvere ne abbiamo vista tanta, fino a impedirci di guardare in lontananza, e quindi di non cogliere la complessità, ma anche la ricchezza, del confronto tra persone che s’ispirano a un cammino di fede. Abbiamo visto il dialogo della spettacolarizzazione, quello – che pure ha ricoperto una notevole funzione simbolica – dei grandi eventi interreligiosi utilizzati per dimostrare che un pastore e un rabbino, un imam e un presbitero potevano incontrarsi senza problemi e stringersi la mano. Gesti minimi, eppure utili a invertire il corso di una storia secolare che invece aveva favorito il crearsi di barriere e tensioni, scomuniche e guerre, censure e anatemi. Il limite di tale tipologia di appuntamenti è stato, peraltro, la loro ripetitività, il fatto che si celebrassero sempre uguali a se stessi, senza mostrarsi in grado di andare oltre la logica dell’incontro paludato e prevedibile nel suo andamento così come nel suo esito.

Un altro segmento del dialogo sperimentato in questi anni è stato quello del confronto sulle verità: tema decisivo e ostico, tuttavia essenziale. La strada dell’incontro esclusivamente su ciò che unisce, evitando di misurarsi su ciò che divide, però, non porta lontano, spingendo ciascun partner a nascondere per bene negli armadi i propri fantasmi. Dire che il valore della pace è al centro di tutte le tradizioni di fede, ad esempio, è un’ovvietà ma anche una mistificazione: basta leggere i testi sacri per verificare che il sangue vi scorre in abbondanza; si ripassi la storia europea e verranno in mente stragi e persecuzioni compiute senza particolari problemi nel nome di Dio; si analizzi l’atlante geopolitico per verificare che più di un terzo dei conflitti in corso possiedono una valenza anche religiosa. Pena la perdita della sua efficacia e del suo realismo, il dialogo sulle verità non può prescindere da simili dati che, attraversando tutte le religioni, le mettono tutte sul banco degli imputati. Certo, quello della pace – e della guerra – non è l’unico tema di un dialogo centrato sulle verità delle varie tradizioni. Eppure, si tratta di una questione centrale da cui derivano a cascata altre domande: chi è per noi l’altro? Come lo trattiamo? Quanta luce dell’immagine di Dio siamo disposti a riconoscere sul suo volto?  E la nostra fede, è un recinto di esclusione di chi dice Dio in altro modo o non lo dice affatto, oppure un ponte che ci rimanda all’altro? Anche questi sono questioni di verità su cui le principali tradizioni religiose hanno spesso evitato di misurarsi.

Per reagire all’astrazione del dialogo delle verità, si è poi optato per quello della vita, centrato sulle relazioni quotidiane. Si è trattato di un sicuro esercizio di ascolto e di condivisione, che ci ha permesso di scoprire i tesori dell’altro a partire dalla semplicità del suo racconto e della sua testimonianza personale. Il dialogo della vita è stato e resta opzione feconda, che però, per crescere, ha bisogno di un quadro più generale. Imparare da Ismail o da Sumaya come pregano e vivono il Ramadan, e provare a spiegar loro chi sono per noi Agostino o Francesco d’Assisi, è stata una bella avventura di mediazione interculturale, in cui sono nate amicizie profonde che resistono nel tempo. Tuttavia, il limite di tale segmento di dialogo è quello proprio di ogni esperienza di base: importante e rassicurante sul piano delle relazioni tra le persone – tra alcune persone – essa fatica a incidere sul contesto generale dove, sempre più spesso, crescono invece pregiudizi e sentimenti identitari e islamofobici.

Di moda, soprattutto negli ultimi anni, il dialogo delle spiritualità. Intenso, profondo, rassicurante, persino gratificante. L’assunto è che siamo entrati in una fase nuova, nella cosiddetta post-secolarizzazione, che ha riportato in auge le tematiche dell’Assoluto e della trascendenza, di Dio e della fede. Ovviamente, non si tratta di un ritorno al passato, semmai a un futuro post-moderno. Un tempo in cui – per molti ma non per tutti – il passato delle religiosità forti s’intreccia fino a confondersi con il futuro delle religiosità post-moderne, fluide e deboli nelle forme di appartenenza. In questo tempo sono in tanti a percorrere sentieri spirituali diversi, pronti a pellegrinare verso Santiago di Compostela o a seguire le lezioni di saggezza di un guru indiano, disponibili a riconoscere il miracolo di una guarigione e aperti al confronto con la mistica ebraica o inebriati dal fascino delle danze sufi. Tutto discutibile e facilmente tacciabile di sincretismo, certo, ma questa sembrerebbe la merce oggi più appetibile nel supermercato delle religioni. In questo quadro, il dialogo delle spiritualità ha un suo appeal e un fondamento. Nel tempo della fusione olistica tra corpo, mente e anima, i motivi della spiritualità irrompono con forza inedita e inattesa anche sul piano del dialogo interreligioso, almeno per chi è cresciuto nell’età della secolarizzazione e oggi, un po’ spaesato, si ritrova in territori sconosciuti su cui è faticoso camminare. Ma anche questo, da solo non può bastare. Occorre andare oltre.

 Diakonia è il termine che, nel Nuovo Testamento, indica il servizio che i credenti in Cristo praticavano ai più poveri e bisognosi. E’ un campo che il dialogo tra le grandi comunità di fede non ha ancora arato appieno, eppure il terreno è fertile e, con un po’ di lavoro e di fiducia reciproca, si può immaginare di ricavarne frutti abbondanti. Qualche seme buttato qua e là ha già dato i primi esiti: pensiamo, ad esempio, all’azione ecumenica a sostegno degli immigrati; alle iniziative interreligiose di preghiera in cui ogni anno si ricordano i profughi morti nel Mediterraneo; alla concretezza con cui tante persone di diverse fedi si impegnano in scuole di alfabetizzazione o centri di accoglienza per migranti. Manca però, ancora, un quadro teologico nel quale collocare queste esperienze che, scollegate, perdono molto della loro potenziale efficacia. Non si tratta di rinunciare agli altri segmenti del dialogo, ciascuno dei quali ha il suo senso e la sua funzione: ma, qoheleticamente, ogni cosa ha il suo tempo, e questo è in primo luogo il tempo del servizio a migranti globali, uomini e donne che bussano alle nostre porte. Anche a quelle delle chiese, delle moschee, delle sinagoghe, e di ogni altra casa di Dio. E’ in questo contesto che papa Francesco si è spinto a sostenere, nel suo pellegrinaggio all’isola greca di Lesvos, il 16 aprile 2016, parlando agli abitanti impegnati da mesi in una faticosa azione di ospitalità verso i migranti: “Di fronte al male del mondo, Gesù si è fatto nostro servo, e col suo servizio di amore ha salvato il mondo. Questo è il vero potere che genera la pace. Solo chi serve con amore costruisce la pace. Il servizio fa uscire da se stessi e si prende cura degli altri, non lascia che le persone e le cose vadano in rovina, ma sa custodirle, superando la spessa coltre dell’indifferenza che annebbia le menti e i cuori. Grazie a voi, perché siete custodi di umanità, perché vi prendete teneramente cura della carne di Cristo, che soffre nel più piccolo fratello affamato e forestiero, e che voi avete accolto (cfr Mt 25,35)”. Sì, ci attende un lungo e faticoso (ma anche esaltante) itinerario, da affrontare insieme con coraggio, umiltà e la dovuta pazienza: perché el camino se hace al andar (A. Machado), è solo camminando che si apre il cammino.

Brunetto Salvarani

 

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