Il racconto dell’incontro e una riflessione della biblista sul diaconato femminile
Nella splendida cornice del Tempio di Santa Corona, gremito da un pubblico attento e partecipe, Presenza Donna ha proposto un evento della XII edizione del Festival biblico, che ha avuto per titolo “Pace e giustizia si baceranno”. Si intrecciano la pace e la giustizia e si intrecciano anche mondi e generi diversi, terre e culture, conoscenza e incarnazione della Scrittura nella vita. A guidarci nella fecondità di questi intrecci è stata (ben introdotta da suor Federica Cacciavillani) la biblista Maria Soave Buscemi, animatrice di gruppi di lettura popolare della Bibbia con grande esperienza nelle comunità ecclesiali di base brasiliane. “Corpi di donne e Sacre Scritture. La lettura popolare e femminista della Bibbia e della Vita” il titolo dell’evento che ha mostrato come accogliere la sfida di impastare Bibbia e vita, dando voce al grande popolo degli impoveriti, degli ammutoliti, delle donne, dell’acqua e dell’aria, dei dimenticati.
A dir poco splendido l’accompagnamento musicale proposto da Elena Biasi (arpa) e Stefano Tincani (trombone): un viaggio suggestivo attraverso i generi e le sonorità, dalla tradizione andina al jazz passando per i ritmi della bossa nova, in un percorso musicale che ha saputo davvero esaltare l’ascolto e celebrare la vita e la sua bellezza.
A margine dell’incontro, abbiamo colto l’occasione per porre alcune domande a Maria Soave Buscemi.
L’apertura di papa Francesco sul diaconato alle donne ha suscitato grande eco e stupore, soprattutto in Italia. Qual è stata la sua reazione?
Credo che questo sia un tempo di papato che, nella persona di Francesco, cerca di essere pratica di “processi di sinodalità”. È una pratica che riempie di meraviglia e gratitudine qualsiasi persona in cammino personale e comunitario alla sequela di Gesù, nella costruzione del Regno di Dio. È un tempo di grazia, che vuol dire un altro tipo di tempo: il tempo, come scrivevo in una lettera che ho avuto la gioia di consegnare nelle mani di papa Francesco nel novembre scorso, che ci fa percorrere un cammino di esodo dal numero dodici, denso di profondo significato, al numero sette, più ampio, missionario, non più escludente. E poi le tribù di Israele non erano dodici, perché anche Dina era figlia di Giacobbe! C’è una tredicesima tribù errante sulla terra. Una tribù di gente, donne, bambini, impoveriti, di cui nessuno fa memoria e a cui nessuno dà voce! Nella nostra tradizione anche Maria Maddalena aumenta il numero degli apostoli, e anche lei è intitolata “apostola degli apostoli”. Credo che in questo contesto vada inserito il processo di papa Francesco di creare, su insistente richiesta delle donne e donne religiose, un gruppo di studio a riguardo del diaconato delle donne. Esistono già lunghi cammini percorsi in questo senso in Italia e nel mondo. Occorrerà ascoltare i fili di diaconato delle donne che ci giungono dai testi biblici, fin dal saluto di Paolo alla diacona Febe nel sedicesimo capitolo della lettera ai Romani. Occorrerà ascoltare con discernimento i fili della tradizione e il discernimento del magistero e della profezia magisteriale come quella dell’amato cardinal Martini.
Nelle comunità cristiane del Brasile come viene percepito e praticato il rapporto tra donne e ministeri?
Ho visto, nei 26 anni (la metà della mia vita) di condivisione di cammino con la chiesa cattolica in Brasile, una grande parabola, purtroppo oggi discendente. Dal Vaticano II fino alla fine degli anni ‘90 in Brasile abbiamo vissuto un grande processo di comunione e partecipazione nella rete di piccole comunità ecclesiali di base. Nella diocesi dove ho servito per quasi vent’anni come missionaria queste comunità erano 500, e ogni domenica si ritrovavano per la celebrazione del giorno del Signore. Era un condividere la vita, passione, morte e anelito di resurrezione della comunità, nella vita, passione, morte e resurrezione di Gesù. Queste comunità erano animate e coordinate nell’unica forma di potere, quello che si fa servizio, da donne e uomini laici, ministre e ministri della Parola, del battesimo e testimoni qualificati del matrimonio. In gran parte questi ministeri erano esercitati soprattutto da donne. Madri di famiglia, operaie e contadine che si mettevano a disposizione della comunità, si preparavano con molta serietà e vocazione a questi ministeri. Per molti anni uno dei miei servizi è stato l’accompagnamento alla formazione dei ministri e ministre laici. Le cose sono poi cambiate nella chiesa brasiliana. C’è stato un ritorno a uno stretto clericalismo. Forse i ministri ordinati di nuova generazione si sono sentiti “svuotati di potere” in questo modo di essere chiesa.
Nel messaggio per la Giornata missionaria papa Francesco scrive: “Segno eloquente dell’amore materno di Dio è una considerevole e crescente presenza femminile nel mondo missionario, accanto a quella maschile. (…) Le donne e le famiglie comprendono spesso più adeguatamente i problemi della gente e sanno affrontarli in modo opportuno e talvolta inedito”.
Non saprei dire con assertività se le donne comprendono in maniera più adeguata i problemi della gente. Non credo che questo abbia a che vedere con l’essere donne o uomini, quanto piuttosto con lo stare con la gente, tra la gente, per la gente, il più possibile come la gente. In questo senso le famiglie missionarie che stanno tra altre famiglie comprendono più adeguatamente. Come le religiose che in Brasile hanno fatto fedelmente l’esperienza di una vita religiosa inserita tra la gente impoverita, con la gente, per la gente. In questo senso, di una pratica che è più dell’idea, possono comprendere in maniera più adeguata. Lo stare con la gente mi ha fatto comprendere che il mio cuore ama e la mia testa pensa a partire da dove sono i miei piedi, a partire da compagni e compagne di cammino. Con il mio popolo ho imparato a fare teologia con i piedi! “A volte sentiamo la tentazione di essere cristiani mantenendo una prudente distanza dalle piaghe del Signore. Ma Gesù vuole che tocchiamo la miseria umana, che tocchiamo la carne sofferente degli altri. Aspetta che rinunciamo a cercare quei ripari personali o comunitari che ci permettono di mantenerci a distanza dal nodo del dramma umano, affinché accettiamo veramente di entrare in contatto con l’esistenza concreta degli altri e conosciamo la forza della tenerezza. Quando lo facciamo, la vita ci si complica sempre meravigliosamente e viviamo l’intensa esperienza di essere popolo, l’esperienza di appartenere a un popolo” (Evangelii Gaudium, 270).
A cura di Enrico Zarpellon