Le parole e i vissuti dell’amore che si intrecciano, alla scuola di un Dio che per amore si fa uomo e dona la vita
C’è una poesia di W.H. Auden, poeta inglese morto nel 1973, che trovo davvero bella. Ogni strofa, che s’interroga su cosa sia l’amore, finisce con il ritornello: “La verità, vi prego, sull’amore”. È come un’invocazione, che ciascuno può fare sua. Infatti, se da una parte si tratta di un’esperienza universale, dall’altra ne cogliamo l’ambiguità. Chiamiamo amore cose assai diverse tra loro e la differenza non è unicamente a livello di parole, sono i vissuti concreti ad essere talvolta opposti, pur indicandoli con il medesimo vocabolo. Mi viene in mente un libro di Luce Irigaray, che volutamente intitola Amo a te (ponendo una giusta distanza tra i due che si amano), per evitare la tentazione di catturare l’oggetto amato. Purtroppo, quando avviene, si continua a chiamarlo amore.
Amare
Già indicare questa esperienza con un verbo, invece che con un sostantivo, mette nell’ordine di idee che soprattutto l’amore va praticato più che definito. Anzi, probabilmente parlarne troppo è indice di una sua mancanza, analogamente al fatto che mai ci si riferisce alla salute come quando si è ricoverati in ospedale! Mi piace, a questo proposito, la scelta fatta dalla traduzione interconfessionale in lingua corrente dell’inno alla carità di Paolo: “Chi ama è paziente e generoso. Chi ama non è invidioso, non si vanta, non si gonfia di orgoglio. Chi ama è rispettoso, non cerca il proprio interesse, non cede alla collera, dimentica i torti. Chi ama non gode dell’ingiustizia, la verità è la sua gioia. Chi ama è sempre comprensivo, sempre fiducioso, sempre paziente, sempre aperto alla speranza” (1Cor 13,4-7). Una sorta di declinazione del verbo amare, nella quale possiamo tutti specchiarci. Non tuttavia per immaginare che il nostro amare debba essere perfetto, dal momento che amiamo a partire dall’umanità fragile e limitata di cui siamo impastati. A questo riguardo, non posso non citare l’amica pastora Lidia Maggi, che ripercorrendo le narrazioni bibliche in cui c’è dentro davvero di tutto, giustamente mette come titolo alle sue riflessioni Elogio dell’amore imperfetto. Diviene pericoloso immaginare che si possa amare in modo così intenso e totale, da risparmiarci limiti e delusioni. Troppe volte capita che, in nome dell’amore idealizzato, si scarta l’esperienza che si sta vivendo e si va in cerca di una nuova relazione che non deluda mai. Salvo poi accorgersi che forse non è questione del partner sbagliato, ma di accettare che si ama convivendo con il limite nostro e altrui.
L’amore di Dio
Se noi amiamo con tutte le imperfezioni, che ciascuno sperimenta, almeno Dio amerà senza limiti! Anche su questo, le Scritture ci sorprendono. Parlano sì di un Dio che ama, ma con una gamma di sentimenti così ampia, che non mancano quelli problematici. È tenero, ma anche geloso. Perdona, eppure si arrabbia. Non pianta in asso di fronte alle infedeltà, tuttavia non risparmia delusioni e umiliazioni. Certo, di lui si parla applicandogli modalità umane, quando invece è Altro da noi. Rimane, peraltro, la provocazione biblica di un amore di Dio così coinvolto nelle nostre storie, da esprimersi con l’intensità e i limiti in cui ci rispecchiamo. Un amore di Dio troppo distillato, reso perfezione astratta che non si fa toccare dai grovigli umani, potrebbe prepararci all’inaudito del mistero dell’incarnazione? Il grande annuncio di Giovanni 1,14 penso si possa parafrasare così: “E l’amore di Dio si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”. L’amore si fa storia, nella vicenda di Gesù di Nazareth, che il verbo amare lo declinerà sulle strade della Palestina, incontrando donne e uomini, malati e peccatori. E lo farà fino alla consegna di sé nella tragedia della sua uccisione, trasformata nella scelta di amarci sino alla fine. Infatti ancora Giovanni riconosce: “In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati” (1Gv 4,10). Non solo è in Gesù che abbiamo conosciuto davvero l’amore di Dio, dalle sue parole e dai suoi gesti abbiamo compreso che Dio è amore. E non si tratta di una definizione, quanto piuttosto di un’azione; quella, appunto, di amare dal di dentro le nostre storie d’amore. Come ci ricorda Paolo nelle sue lettere: amati, amiamo.
Come io ho amato voi
La grande tradizione biblica pone come primo comandamento la scelta di amare Dio “con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze” (Dt 6,5). Gesù lo conferma, ad esempio nel dialogo con uno scriba riconoscendo che non è lontano dal regno di Dio. E tuttavia ne consegna una sorta di rilettura ai suoi discepoli, nella cena d’addio: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi” (Gv 15,12). Si tratta di una frase, che ha una logica non consueta. Se infatti dico: “Come io ho amato voi”, verrebbe spontaneo completare: “Voi amate me”. E invece Gesù dice: “Amatevi gli uni gli altri”. Non ci ama perché lo amiamo, ma perché ci amiamo. Una gratuità sorprendente, che mostra il vero modo di amare che ha Dio. Non solo fa il primo passo, come ricorda papa Francesco, concedendosi un’arditezza lessicale: “Primerear – prendere l’iniziativa: vogliate scusarmi per questo neologismo” (EG 24). Spreca il suo amore, non negandolo a nessuno, visto che “fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti” (Mt 5,45). E, attraverso il Figlio, ci consegna l’indicazione di come corrispondere al suo amore: amando gli altri come sorelle e fratelli, visto che siamo tutti e ciascuno suoi figli e figlie. Tutt’altro che facile. Per questo la frase di Gesù andrebbe più precisamente letta in questo modo: Siccome io ho amato voi, allora posso chiedervi di amarvi gli uni gli altri. Non si tratta di un “come” meramente comparativo, è piuttosto generativo della nostra capacità di amare. Possiamo farcela, perché attingiamo al suo amore, che secondo l’annuncio fatto alla donna di Samaria (esperta di amori, ma incapace di amare) diviene in noi “una sorgente d’acqua che zampilla” (Gv 4,14).
Ama e fa’ quello che vuoi
Secondo la conosciuta frase di Agostino, amare è fonte di una libertà inaudita. Non si può infatti amare che liberamente, altrimenti non è amore, e viverne l’esperienza dona ali alla libertà. Chi ama davvero spazia in ampio, non perché vengono cancellati limiti e fatiche, ma perché l’amore li trasforma da zavorra in piani d’appoggio per spiccare il volo. Se parlando d’amore si elencano anzitutto gli obblighi da assolvere e i confini entro i quali stare, amare diventa un peso e non una gioia, una grana da risolvere più che un dono di cui rendere grazie. Da questo punto di vista non concordo con quanti richiamano, soprattutto i giovani, al senso del sacrificio come necessità prima per vivere e far durare le relazioni d’amore. Se amare significa sacrificarsi, perché dovrei farlo? Non è in chiave di sacrificio, che va presentato l’impegno richiesto dall’amore. Forse dovremmo rivedere anche un certo modo di esprimere il cuore della fede cristiana: Gesù non ha voluto sacrificarsi sulla croce, ha scelto di amare dalla croce (che gli è stata inflitta, non l’ha cercata). Ci ha mostrato che è così bello amare, che l’amore è portatore di una così grande forza di vita, che vale la pena di andare fino in fondo in questa esperienza, anche e soprattutto quando ne stai pagando il prezzo. Se ti metti ad amare sul serio, quello che vuoi è di continuare a vivere l’amore, costi quel che costi. Niente è più esigente e insieme niente è più liberante. Provare per credere.
don Dario Vivian