Essere altro per volgersi altrove

01
Ott

Scrutare i segni dei tempi per la conversione pastorale

L’allarme della pandemia non è ancora rientrato eppure tutti sembrano sentire l’impellente bisogno di tornare alla vita di prima, come se quello che stiamo vivendo fosse solo una parentesi e non una realtà da pensare, con delle cause da valutare, e magari persino un’opportunità per mettere in luce i limiti del nostro modo di vivere, aiutandoci a cogliere ciò che dovrebbe cambiare. Anche la Chiesa non può che fare tesoro di questa esperienza, che ha fatto emergere alcuni atteggiamenti problematici, dai quali urge liberarsi se si vuole realizzare la conversione pastorale prospettata da papa Francesco fin da Evangelii gaudium.

Il termine conversione porta con sé l’idea di un cambio di rotta, mentre l’aggettivo pastorale rivela che la direzione da prendere è verso l’esterno della struttura ecclesiale, verso quelli cui si è inviati per prendersene cura. Questo rivolgimento, però, comporta una rivoluzione nella struttura stessa, perché la Chiesa che noi conosciamo è introversa e autoreferenziale per una precisa impostazione difensiva e controversista, che affonda le radici nel concilio di Trento. Mantenendo la Chiesa così come è, semplicemente non è possibile volgersi all’esterno, convertirsi pastoralmente cioè, perché sarebbe come pretendere che una squadra di calcio faccia canestro.

Quali sono però gli atteggiamenti ecclesiali che sono da abbandonare se si vuole compiere la conversione pastorale? Il primo atteggiamento è indubbiamente il clericalismo che durante il lockdown è stato macroscopico. Anzitutto l’immagine pubblica della Chiesa è stata ridotta a preti che celebravano in solitaria (o quasi). Il resto del popolo non era più partecipe, né visibile, ma spettatore: il rischio è che moltissimi abbiano interiorizzato una celebrazione ridotta a ciò che fa il solo presidente, mentre gli altri guardano un atto di cui non sono protagonisti.

Il clericalismo però si è avuto anche per il fatto che in troppo pochi hanno compreso che la Chiesa non aveva smesso di vivere per il solo fatto di non potersi radunare. Questo infatti non ci ha impedito di celebrare in famiglia o nelle comunità religiose una liturgia non meno efficace di quella cui siamo soliti partecipare. Inoltre poiché la Chiesa non coincide con gli atti liturgici o con gli eventi ufficialmente “ecclesiali”, ma con la vita del popolo, se anche il popolo non si poteva radunare per celebrare o se anche abbiamo dovuto sospendere le diverse attività, tutti i credenti – e i preti con loro senza altra possibilità che vivere il quotidiano servizio della vicinanza, del lavoro e della preghiera – hanno continuato ad esercitare il proprio sacerdozio battesimale testimoniando il Vangelo e servendo i fratelli, non solo con il volontariato, ma con il reciproco servizio nelle case, nella cura dei bambini, degli anziani, dei malati, con la compagnia reciproca, con il lavoro condotto in presenza o in remoto, con l’impegno negli ospedali, nelle forze dell’ordine, nella protezione civile e, infine, con la preghiera. Tutti i credenti che hanno vissuto questo erano la Chiesa che compiva continuamente il gesto di Cristo, cioè spezzarsi e darsi in cibo per far vivere.

Il clericalismo porta con sé – e nella pandemia è stato evidente – anche un allontanamento dalla vita delle persone perché interrompe le relazioni di comunione fra i credenti, crea gerarchie e separazioni, impedisce la condivisione delle esperienze. In questo modo le relazioni diventano formali, distaccate, politicamente corrette. Durante il lockdown invece ciascuno si è stretto alle persone che più ama e stima, travalicando i confini degli stati di vita, delle chiese particolari, delle parrocchie, dimenticando ruoli e formalità. L’amicizia e la condivisione del sentire profondo sono stati i binari che hanno condotto le persone nella navigazione, nei messaggi, nelle telefonate. Non potendo godere della vicinanza dei corpi, ciascuno ha cercato la vicinanza dello spirito e dell’affetto, mostrando come sia la carità e la condivisione del Vangelo l’ordito su cui si tramano le relazioni ecclesiali. La conversione pastorale vorrebbe l’abbandono di ogni formalismo per un incontro vero con l’altro/a per relazioni umane autentiche, pur con tutti i limiti che la realtà ci impone, ma questo non può accadere fino a che di tale qualità non siano per prime le relazioni intraecclesiali.

Notiamo infine che il distacco dalla realtà che il clericalismo porta con sé ha come effetto deleterio anche l’incapacità di dire parole significative e infatti la predicazione ecclesiale in questo tempo ha fatto una grandissima fatica, mentre la parola era proprio ciò su cui ci potevamo giocare. Le nostre parole erano solidali ed empatiche, ma non incisive, né evangelizzanti, come se non fossimo in grado di stare immersi nella realtà di tutti e illuminarla con la luce del Vangelo. Questa luce, però, non viene da parole distaccate che richiamino ad una generica fiducia in un Dio buono, ma da vite concrete che incarnano la parola del Vangelo e quindi riescono a raccontarla in modo che appaia credibile qui ed ora, indicando rinnovate possibilità di vita.

Per operare una conversione pastorale la Chiesa ha bisogno dunque di abbandonare strutture clericali e autoreferenziali, che la separano dal resto dell’umanità e le tolgono la capacità di annunciare efficacemente il Vangelo che ha ricevuto. Forse quanto emerso durante il lockdown può aiutarci a comprendere quale sia la direzione da prendere. Forse è giunto il momento di giocarci sulla Parola di Dio accolta e vissuta, su relazioni reali e trasparenti, su una presenza in mezzo agli uomini e alle donne del nostro tempo che non mostri un’istituzione arcaica, ultimo baluardo di una società ormai finita, ma una famiglia di sorelle e fratelli che si nutrono dell’amore del Padre per prendersi cura di ogni fame di cui si accorgano intorno a sé, sanando e beneficando.

Simona Segoloni Ruta

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