Sinfonia a più voci per un pianeta più umano
Era l’estate del 2016. Uno dei motivi per cui tornavo a Genova era questo: visitare la mostra fotografica Genesi di uno dei massimi fotografi viventi, il brasiliano Sebastião Salgado. Non lo conoscevo bene, anche se già avevo visto alcuni suoi servizi sulle zone più remote e disastrate della terra: ricordavo in particolare la crudezza delle immagini delle genti del Sahel assetato e l’orrore del genocidio in Ruanda. Mi erano rimaste impresse le sue parole: “Quello che ho visto lì mi ha fatto perdere la fede nell’uomo e nel mondo. Alla fine anche la mia salute era andata a pezzi”. Ora nuove motivazioni mi spingevano a una conoscenza più profonda: il titolo così coinvolgente, primigenio e, nello stesso tempo, inquietante, e la coincidenza per cui la mostra che stava girando il mondo era stata concepita in perfetto tempismo con la pubblicazione dell’enciclica di papa Francesco Laudato si’ (giugno 2015). Mi interessava trovare ciò che legava due uomini, in alcuni aspetti simili (ambedue sudamericani e fortemente toccati dallo sconvolgimento ambientale) e pure tanto differenti: il gesuita divenuto capo della Chiesa, e l’economista con studi in prestigiose università francesi che si lascia alle spalle una brillante carriera per diventare testimone della suprema bellezza e dei drammi inenarrabili della contemporaneità. Avendo sperimentato come la parola sia spesso inadeguata, sceglie il linguaggio dell’immagine, della fotografia esclusivamente in bianco e nero, il cui uso sapiente meglio evidenzia gli insanabili contrasti testimoniati: è il suo tributo alle migrazioni di massa causate dalla carestia, dai disastri naturali e dal degrado ambientale. Ed è tale l’immedesimazione con i mali del mondo che nel 2000 decide di smettere. Basta. Né gli occhi né il cuore né la mente possono più assorbire niente. È il momento di tornare a casa, in Brasile, assieme alla moglie Leila, compagna di vita, di ideali, di battaglie. E qui Salgado scopre il nuovo scempio che sta devastando l’Amazzonia, denunciando al mondo intero la disperata ricerca dell’oro di migliaia e migliaia di disperati, uomini, donne, bambini, vere strade umane che, come formiche, salgono la montagna all’inseguimento di un irraggiungibile miraggio: un inferno nel verde della foresta. È allora che si compie in lui una vera e propria conversione ecologica: è il momento di agire in modo concreto, di lasciare un segno, da cui poter ripartire per una nuova creazione. E la sua utopia prende forma. Due milioni e mezzo di alberi piantati dovranno ricostruire ciò che in modo quasi inesorabile gli speculatori stanno distruggendo, ricoprire di vegetazione il deserto creato dagli uomini: “La riforestazione è solo uno dei modi per far girare al contrario le lancette del tempo. Con gli alberi piantati possiamo respirare meglio e nutrire speranze per il futuro del nostro pianeta”. È in questo momento che nasce il progetto Genesi: realizzare attraverso la fotografia un grandioso omaggio al pianeta, documentando, per otto anni e in ogni angolo dei cinque continenti, alberi, animali, paesaggi, uomini non ancora “contaminati” dall’istinto distruttore del genere umano e da un’economia vampira e insaziabile. “In Genesi, la mia fotocamera ha permesso alla natura di parlare. E io ho avuto il privilegio di ascoltare”, scrive Salgado nella presentazione. Una illustrata lettera d’amore alla Terra che conserva ancora, nonostante tutto, il gesto primigenio della Creazione. L’uso del bianco e nero renderà più esplicito il primo atto dello Spirito Creatore: la separazione delle tenebre e della luce. Chi ha visitato Genesi, in qualsiasi luogo del mondo, non può non essersi sentito compenetrato dall’atmosfera arcaica e giovane insieme, bella e terribile e non aver provato bellezza e sgomento davanti all’energia intatta del nostro pianeta. Si ripercorrono i giorni della Creazione: le acque, l’aria, le forze della natura, le forme vegetali, le foreste e i deserti, gli animali nel loro intatto contesto ambientale. Ed ecco l’uomo, ecco la donna, novella Eva generatrice. Si percepisce, quasi si vive il legame simbiotico con cui l’essere umano è radicato al suo ambiente, ricevendone da esso risorse e vita. Lungi dall’essere un rimpianto nostalgico, lo sguardo si proietta verso il futuro: sarà Roma la sede della nuova mostra sull’Amazzonia, un progetto a cui si sta dedicando negli ultimi anni, accompagnato da una dura denuncia contro il rischio di sterminio degli indios, che il Covid-19 colpisce con altissima violenza, anche a causa della politica brasiliana che appoggia pienamente gli speculatori e i faccendieri dell’agro-business. Riflettere oggi sui documenti relativi al Sinodo sull’Amazzonia e abbandonarsi alle immagini di Salgado è come ascoltare un canto a due voci, due variazioni melodiche su un unico tema: voci diverse convergenti nell’amore per le creature, per gli esseri umani – gli ultimi in primis -, la realtà del mondo in bilico sulla distruzione. È il regista tedesco Wim Wenders, in due suoi film, a far dialogare idealmente Francesco e Sebastião: il documentario su papa Bergoglio e l’emozionante Il sale della Terra. Nell’uno e nell’altro spicca un ingrediente necessario e fondamentale a questa svolta nella visione del mondo: il silenzio.
E nel silenzio che avvolgeva le sale del Palazzo Ducale di Genova, emergevano dalla mia memoria alcune parole di Mario Rigoni Stern: il silenzio della steppa innevata della Russia ha il sapore e il suono della morte: “Si alzò la tormenta. Un vento radente sollevava come sabbia del deserto la neve della steppa, e come degli spettri gli uomini silenziosi camminavano curvi contro quel vortice. Andarono così tutta la notte, molti cadevano nel silenzio e non si rialzavano”. Come appare differente il silenzio “vivo” delle sue, delle “nostre” montagne: “Avete mai assistito a un’alba sulle montagne? Salire la montagna quando è ancora buio e aspettare il sorgere del sole. È uno spettacolo che nessun altro mezzo creato dall’uomo vi può dare, questo spettacolo della natura. A un certo momento, prima che il sole salga, c’è un fremito. Non è l’aria che si è mossa, è un qualche cosa che fa fremere l’erba, che fa fremere le fronde se ci sono alberi intorno, l’aria stessa, ed è un brivido che percorre anche la tua pelle. E per conto mio è proprio il brivido della creazione che il sole ci porta ogni mattina”. È l’ora blu, è l’ora descritta e vissuta da Dante, sbucato dall’orrore, dallo strepito, dalle urla dell’Inferno sulla spiaggia del Purgatorio all’alba di Pasqua: lo avvolge un silenzio totale eppure vivo, lo accompagna il ritmo di un respiro finalmente profondo e liberatorio, può assaporare la bellezza del paesaggio dal “dolce color d’oriental zaffiro”, che riporta diletto e serenità al cuore e all’animo turbati. Ed è dal silenzio vivo della natura che può generarsi la musica: come quella di Casella, l’amico ritrovato, appena arrivato al suo luogo di penitenza che col suo canto consola lo spirito ancora affranto e malinconico del Poeta. Il silenzio come veicolo di rigenerazione, di ecologia dei sentimenti e delle emozioni.
Le emozioni di uno scrittore contemporaneo come Rigoni Stern e di un antico poeta come Dante, così come le voci di papa Francesco e di Salgado, si accordano nell’armonia del silenzio; e in questa linea melodica non può mancare il tocco del musicista: “Sembra che la natura pretenda un silenzio per far sentire il suo respiro, la sua musica, perché la natura non vive nel silenzio ma lo provoca […]. Quando si riescono a escludere tutti i rumori, allora il silenzio apparente della natura inizia a «cantare». Ed è un canto silenzioso, un canto che solo i nostri sentimenti possono «sentire»”. Chi scrive è un musicista, uno dei più grandi violoncellisti in attività, Mario Brunello. Proprio i luoghi in cui il denominatore comune è il silenzio diventano i teatri dove preferisce esibirsi: chiostri, monasteri, un capannone dismesso di Castelfranco Veneto trasformato in “officina musicale”. E poi le amatissime Dolomiti, fino ai tremila metri, percorrendo sentieri anche ardui, a contatto con le nevi eterne dei ghiacciai, tra i prati punteggiati di crocus o di gigli di montagna o al limitare dei boschi dipinti dalla tavolozza dei colori autunnali, dove chi vuole ascoltare deve a sua volta sottoporsi alla “terapia del silenzio”. E ancora spazi infiniti: “Ho portato il mio violoncello più volte nel deserto e ho provato cosa vuol dire attraversare il silenzio con il suono. La musica nasce e immediatamente fugge in tutte le direzioni, come trasportata dal soffio del respiro del deserto… Si sente il suono del battito cardiaco, si sente il rumore del sangue che circola e si sente la responsabilità di fermare il tempo del silenzio con un suono. È netta la sensazione che i suoni che vengono dal silenzio non possono essere casuali”. Una “conversione musicale” che lo porta a concludere: “Il silenzio come strada da percorrere, forse l’unica per l’incontro con Dio”. Nel tempo della recente quarantena, quando anche le città più rumorose sono diventate improvvisamente silenziose, anche per esorcizzare lo sgomento ho voluto rileggere il volumetto Silenzio di Mario Brunello. Contemporaneamente mi facevano compagnia i versi della poetessa polacca Wis?awa Szymborska, premio Nobel per la letteratura. Strano, ma vero. Leggo, ma solo con la mente, per non far rumore, il suono femminile del silenzio: “Quando pronuncio la parola futuro, / la prima sillaba già va nel passato. / Quando pronuncio la parola silenzio, / lo distruggo”.
Anche dal silenzio della quarantena può fiorire la poesia.
Chiara Magaraggia