“Credere, sperare, agire non per la vita necessaria, ma perché per tutte le creature della terra sia vita eccessiva, colma di amore”
La prima parte del decimo capitolo di Giovanni è molto conosciuta perché presenta l’immagine del bel/buon pastore con cui spesso viene rappresentata la figura di Gesù.
Oltre a questa bella immagine, ogni frase del brano manifesta parole di speranza, di tenerezza e di amore incondizionato. Gesù afferma di essere il pastore che conosce le sue pecore ad una ad una, ciascuna è chiamata per nome, accolta così com’è, libera di entrare e uscire dal recinto che quindi non è più tale, non è più un luogo chiuso in cui rimanere per non perdere identità o appartenenza anzi, Gesù stesso invita ad uscire: lui è la porta attraverso la quale entrare e vivere alcune esperienze particolari con sorelle e fratelli, ma è anche la porta attraverso cui si deve uscire.
Invitando le sue pecore ad andare verso altri pascoli, Gesù fa loro compiere un esodo da uno spazio limitato verso orizzonti che a volte si riescono solo ad intravvedere e riconoscere, ma che sono promessa su cui scommettere la propria esistenza. È uscendo, incontrando altre persone, altre realtà, modi diversi di vivere e di sperimentare il mondo, osservando la natura che ci circonda, imparando a conoscere e a rispettarne i tempi e gli equilibri, che si trovano pascoli a cui attingere nutrimento per se stessi e la propria interiorità.
Gesù per primo annuncia e compie questo andare fuori: ci sono altre pecore, oltre il recinto, che hanno bisogno di incontrare qualcuno che le chiami per nome, che sia disposto a dare la vita per loro. Questo è infatti compito che affida alle sue discepole e discepoli, l’invito ad andare ad annunciare ovunque il suo messaggio di speranza e di gioia (Mt 28,19-20).
Gesù non è come chi si accosta alle donne e agli uomini del nostro tempo per un proprio tornaconto, togliendo loro vita per un proprio guadagno, egli dice chiaramente di essere venuto perché “abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10). Il desiderio di Gesù, ciò che Dio vuole, è questa vita piena per tutti e non solo per alcuni.
La parola greca perisson, tradotta con “abbondante”, significa anche oltre misura, superfluo, eccessivamente, oltre quanto ci si potrebbe aspettare. È la misura di vita che ci dona Gesù, una misura così piena, realizzata e ricca che ci fa comprendere come essa non sia un bene da contendere, ma qualcosa che ci viene dato a piene mani per poterla condividere e più viene condivisa, più si moltiplica ed è abbondante.
Questo tempo che stiamo vivendo, la pandemia che è diventata un pericolo per tutta l’umanità, se da un lato ha assunto le sembianze di un’onda spaventosa di dolore e di morte, dall’altro ci ha reso consapevoli della interrelazione che esiste tra tutta l’umanità ed il creato e di come ciascun essere umano sia compartecipe delle ripercussioni del proprio atteggiamento e delle proprie azioni. Spesso in questi giorni si è sentito parlare di una natura che si ribella, che si ritorce contro l’umano, ma la natura vive la sua realtà, mette in campo i propri meccanismi di difesa: è se stessa. Siamo noi esseri umani che dimentichiamo di “coltivare e custodire” il mondo come indicato “in principio’” (Gen 2,15).
Proprio in quelle situazioni in cui sembra prevalere la morte, diventa necessario interrogarsi sulla promessa di vita, sul nostro amore per la vita. È un amore teorico, legato a quello che desideriamo e che ci aspettiamo da essa, o riusciamo ad amarla per come si presenta, senza condizioni? Forse è proprio la nostra comprensione del termine abbondanza che deve essere modificata. La vita abbondante che Dio ci dona non cade dall’alto, ma è un continuo processo di apprendimento, un cammino con scoperte e crescite, ma anche con fallimenti e passi indietro; un continuo cercare di rigenerare la vita stessa, un di più di vita che non è relativo a dopo la morte, ma durante la nostra esistenza. Credere, sperare, agire non per la vita necessaria, non per quello che intendiamo come il minimo vitale, ma perché, per tutte le creature della terra, sia vita eccessiva, colma di amore.
Gesù ci ha mostrato questi “eccessi”: ha diviso il pane con più di 5000 persone, ha chiesto di perdonare settanta volte sette, senza limiti. Bene l’aveva compreso Maria di Betania quando aveva cosparso i piedi di Gesù con trecento grammi di puro nardo, l’equivalente di un anno di lavoro, in un unico gesto di amore straripante, che rompe ogni argine.
“Gesù non è venuto a portare una teoria religiosa, un sistema di pensiero. Ci ha comunicato vita ed ha creato in noi l’anelito verso più grande vita” (G. Vannucci).
Gesù, che ha dato la vita per noi, è colui che in ogni istante della nostra esistenza ci fa credere nella vita, ci fa sperare in essa anche di fronte alle cose che non comprendiamo, su cui ci sembra di non poter agire, anche di fronte alla morte, fidandosi delle sue parole: “nessuno può strappare le mie pecore dalla mia mano” (Gv 10,28).
Donatella Mottin