I Salmi cantano la gloria di Dio: un viaggio nella musica e nelle arti figurative
Devo molto a un artista, lo scultore fiorentino Luca della Robbia, se ho scoperto i Salmi, la loro bellezza poetica, la potenza della loro preghiera. Ricordo con emozione il momento in cui sono entrata nel grande luminoso salone del Museo dell’Opera di Santa Maria del Fiore – lo scrigno dei tesori della cattedrale di Firenze – dove, una di fronte all’altra, troneggiano in alto le due cantorie marmoree di Donatello e di Luca, scolpite per il duomo e qui protette dopo l’accurato restauro. Da lassù i cantori inondavano le navate gotiche con le note canore, e la solennità della melodia sapeva schiudere ai fedeli l’armonia del paradiso. I due artisti sembrano gareggiare nell’interpretazione da attribuire alla musica e il contrasto non può essere più forte: un’irrefrenabile danza di bambini ridenti e sfrenati in Donatello – che sembra richiamare l’ebbrezza del ballo con cui re Davide accompagnava il trasferimento dell’Arca dell’alleanza verso il monte di Gerusalemme – la grazia e la compostezza di Luca, che fa sfilare giovanissimi suonatori e leggiadre giovinette impegnate nel canto, accomunati da una serena e rasserenante fiducia. È come se i due artisti, protagonisti del Rinascimento, avessero voluto rappresentare il differente modo con cui l’uomo – e l’intera città di Firenze – si rapportano a Dio: irruente e impetuoso o composto e interiore. E ognuno di noi è ora l’uno e ora l’altro. Fra le due cantorie è posto un alto leggio ligneo con i preziosi codici miniati del Salterio, il libro dei Salmi, la preghiera universale che si è fatta musica, poesia, arte. Mi attira la scritta che percorre tutto il perimetro del pulpito di Luca. È in latino, scritto con una geometrica scrittura quadrata: “Alleluja! Al Signore cantate! Lodatelo per i suoi prodigi / lodatelo per la sua grandezza immensa. / Lodatelo con i suoni del corno / lodatelo con l’arpa e la cetra. / Lodatelo con timpani e danze, / lodatelo sulle corde e coi flauti. / Lodatelo con cembali sonori / lodatelo con cembali squillanti. /Alleluja! Al Signore cantate!”.
È il Salmo 150, quello che chiude il Salterio con una gioiosa, corale lode all’Altissimo: tutte le diverse voci che hanno prima invocato, pianto, inveito, benedetto, meditato, pregato sembrano essersi unite in un’unica mirabile voce. C’è silenzio e solitudine intorno a me, inconsueti in un museo fiorentino. Questo fa sì che, per un attimo, è come se i vari riquadri marmorei con il canto, la danza, i suoni, rompano il silenzio e le figure prendano anima. Ecco il suono del corno, lo shofar, lo strumento sacro delle feste ebraiche e le gote dei ragazzi si gonfiano per lo sforzo e l’impegno; ad esso si accompagna la melodia degli strumenti a corda, liuti, vielle, ghironde suonati dalle fanciulle, e tutto è scandito dal ritmo gioioso e trascinante di cembali e tamburelli che sono i più piccolini a suonare divertiti. È un’intera orchestra che accompagna il canto, dapprima sommesso, poi sempre più forte e corale, con le voci che si rincorrono, si sovrappongono, si armonizzano e intanto si improvvisano coreografie a girotondo, perché anche il corpo vuole partecipare con tutto se stesso, con tutta la sua bellezza alla lode divina. E le danze dei giovani di Luca idealmente si intrecciano con quelle veloci e spontanee dei putti di Donatello in un unico grande coro: “Alleluja! Al Signore cantate!”.
Intanto il mio occhio si posa sul grande leggio ligneo: e penso a come i Salmi (molti dei quali composti mille anni prima di Cristo dal re Davide, musico, poeta, cantante e danzatore), proprio per i numerosi riferimenti musicali presenti, si possano considerare forse la prima testimonianza scritta dell’utilizzo della musica, precedente perfino agli aedi greci, che nel Mediterraneo divulgavano le gesta degli eroi dei miti classici. Anche per questo gli amanuensi e le amanuensi benedettini fin dal più profondo medioevo hanno voluto ornare le pergamene del Salterio – come quelle che splendono davanti ai miei occhi – con luminose miniature in cui sempre è presente Davide con la sua prediletta cetra: ed è bello pensare che si sia voluto rendere la preghiera ancora più preziosa con la luce variopinta delle miniature! È forse proprio questa la risposta a una domanda che spesso mi sono posta: perché gli amanuensi non si sono limitati al già duro, lungo, paziente lavoro di trascrizione, ma hanno voluto inventare una nuovissima splendente forma d’arte, che non solo abbellisce, ma, in qualche modo, sintetizza in una minuscola perfetta immagine il contenuto del testo? La forma scritta della preghiera viene così alleggerita, quasi smaterializzata dall’arcobaleno delle forme e dei colori. Di più: nella forma tutta umana della parola si vuole quasi racchiudere il Mistero divino… la natività, la passione, la risurrezione. Magnifico!
E mi sento scorrere un brivido quando a queste suggestioni si sommano i nomi dei più grandi musicisti che hanno voluto far danzare le note del loro genio con le parole dei Salmi: Monteverdi, Vivaldi, Bach, Mozart e in tempi recenti Stravinsky, Berio, il commosso omaggio di Lucio Dalla, fino al lungo, amoroso lavoro con cui un frate poeta come Turoldo e un musicista classico e popolare come Bepi De Marzi, nella Pieve di Sotto il Monte, hanno voluto riconsegnare i Salmi agli uomini e alle donne di oggi. Padre David cerca di trarre dalla lingua italiana la sua più intensa carica espressiva allo scopo di ricreare sì la forza splendente dell’ebraico antico, la ricchezza simbolica, le immagini realistiche e fantasiose, ma insieme – e in questo sta l’eccezionalità della collaborazione con De Marzi – di ricreare il ritmo perduto dei Salmi, la musica inscindibile dalla parola, così da poter essere ri-cantata e ri-vissuta nella preghiera dei nostri tempi. Recuperare, quindi, lo spirito universale-popolare dei Salmi, con cui ancora ognuno di noi possa piangere e ricordare, sperare e lodare.
Anche se differente nel contesto e nell’espressione, ho rivissuto la stessa forte emozione a Gerusalemme, in un luogo dalla suggestione speciale: la piccola sinagoga interna all’Ospedale Hadassah, il più grande e antico di tutto lo stato di Israele, fondato nel 1912 da un gruppo di donne, con l’intento di dare assistenza a chiunque abbisognasse di cure mediche, affinché, almeno nella comune esperienza della sofferenza, allora come oggi, ebrei e musulmani, israeliani e palestinesi possano convivere senza conflitto. Appena entri, una luce multicolore e naturale ti avvolge – il colore cambia a seconda dell’ora e della stagione – e subito avverti la sensazione di essere accompagnata in un mondo “altro”, dove anche il dolore può essere trasfigurato e plasmato dalla luminosità. L’occhio è immediatamente catturato dalla sorgente luminosa: sono le dodici vetrate che nel 1962 il pittore Marc Chagall ha voluto donare a Gerusalemme, dodici come le dodici tribù d’Israele. Sono tre per ogni lato dell’ambiente: in un lato predomina il rosso in tutte le sue gamme, in un altro l’azzurro col violetto, in un terzo il giallo con l’arancione, infine il verde più o meno intenso. “Per me in una vetrata, che sia in una cattedrale o in una sinagoga, il fenomeno è lo stesso: una realtà mistica che attraversa la finestra. La vetrata è solo una parete trasparente posta tra il mio cuore, il cuore del mondo e l’Altissimo”, scrive l’artista, che, quasi ottantenne, qui rielabora i sentimenti e la religiosità profonda che gli provenivano dalla sua esistenza di adolescente russo cresciuto in ambiente ebraico. Ma il sentimento è plasmato soprattutto dalla conoscenza dei testi sacri, dalla Bibbia, dal Talmud, dalla millenaria sapienza fatta non solo di conoscenza razionale, ma di un inesauribile universo di simboli, in cui nuotano pesci, volano uccelli e perfino asini, strisciano serpenti, pascolano insieme capre, mucche e leoni, si librano nell’aria candelabri a sette o nove braccia, mazzi di fiori, shofar, violini… e lettere ebraiche che come note musicali danzano intorno. E la luce tutto unifica in un abbraccio cosmico, in un coro dove risuonano le parole del Salmo 8: “Come splende, Signore Dio nostro / il tuo nome su tutta la terra / la bellezza tua voglio cantare / essa riempie i cieli immensi”. E ancora “Di gioia trabocchino i cieli / ebbra di gioia danzi la terra, / gonfio di vita frema e rombi il mare” (Salmo 96). Una sinfonia colorata che attinge a due fonti principali: la benedizione del patriarca Giacobbe ai suoi dodici figli, riportata nella Genesi e l’infinita fantasia dei Salmi. Deve passare un bel po’ di tempo perché da quel tutto luminoso riesca a ricomporre a una a una le dodici tribù raffigurate e faccio fatica a fermare il mio occhio, stordito dalla simultaneità dell’impatto visivo. Mi colpisce il giallo sfavillante della vetrata di Neftali, descritta nella Genesi come “una cerva slanciata che genera bei cerbiatti”. La stessa cerva, dallo sguardo mite e dolce, che nel Salmo 42 evoca la vicenda dell’animo umano smarrito nel deserto arido dell’esistenza: “Come una cerva sospira alle fonti / anela a te la mia vita, o Dio / la gola ha sete di Dio / del Dio vivente, e quando verrò / e potrò il volto di Dio vedere?”. Le stesse parole ripetute in latino nel mosaico splendidamente conservato del battistero di Solona (Croazia), agli albori del cristianesimo: “Sicut cervus desiderat ad fontes aquarum, ita desiderat anima mea ad te Domine”. Le immagini poetiche dei Salmi e la bellezza dell’arte unite in una preghiera capace di superare il confine dello spazio, del tempo, delle divisioni: come le cerve agili e snelle di Natalia Goncharova, artista controcorrente, protagonista della rivoluzione artistica della pittura russa agli inizi del Novecento, che, attingendo al tesoro della profonda spiritualità della sua terra, con le sue delicate cerbiatte ripete con nuove forme e colori l’antica invocazione: “Perché, anima mia, sei così triste / perché sospiri e ti abbatti su me? / Nel tuo Dio e Signore confida! / Potrò ancor cantar le sue lodi!”.
Chiara Magaraggia