Quando l’audacia è imbracciare la macchina fotografica
“Amo fotografare le donne perché sono solidale: devono ancora superare tanti ostacoli in questa società maschilista che le vuole eternamente giovani, belle, con una concezione che spesso, in realtà, è solo possesso. Mi piace fotografare le donne anziane, quando hanno ancora tanta voglia di vivere nel volto. E cerco gli occhi sognanti e profondi delle bambine in cui riconosco me stessa, quando mi resi conto, di colpo, che il mondo non era così bello”. Due immagini… e già il suo mondo si spalanca a noi: una ragazza, dal profilo perfetto e con quei capelli folti, scuri e ricci che rendono così belle le donne mediterranee, sta ricamando seduta davanti alla porta di una casa popolare. E un altro scatto: due donne non più giovani stanno anch’esse ricamando, trasformando in sedia la macchina dalla porta aperta, parcheggiata su un piazzaletto dall’erba incolta. Sorridono e sono visibilmente serene. E già si capisce la scelta esistenziale e professionale della fotografa: la preferenza verso i “non protagonisti”, gli ultimi, donne e bambini che tentano di vivere e non solo di sopravvivere, senza grandi pretese, assaporando con dignità tutto ciò che la realtà può loro donare ogni giorno. A vederla, l’autrice delle foto non dimostra i suoi 84 anni, con la lunga frangetta e il caschetto biondo, che a volte ama accendere di sfumature rosse, gli occhi vivi e penetranti, svelta nei movimenti, il look scuro, decisamente informale: capisci subito che ti trovi davanti a una donna dalla personalità decisa che sprizza energia in ogni suo gesto, in ogni sua parola. È una delle fotografe più stimate in Italia, conosciuta in tutto il mondo, capace di dare un volto al quotidiano e allo straordinario della società e della storia, da sempre in primo piano nel raccontare le ragazze, le donne, i bambini della sua Palermo, tenace testimone di impegno civile contro la mafia e le ingiustizie sociali, ma anche dei cambiamenti positivi che in questi ultimi tempi hanno fatto di Palermo “città dell’accoglienza”. Il nome è già un programma. Si chiama Letizia Battaglia. Letizia, come la gioia, l’entusiasmo per la vita, il bene; Battaglia, come il combattimento, l’audacia il confronto, l’ardore. Con un’unica arma: la sua macchina fotografica; con due soli colori: il bianco e il nero. E con questi strumenti si fa interprete appassionata e straziata delle tragedie della sua città, capace tuttavia di cicatrizzare le ferite e di continuare, per impedirci di dimenticare e poter guardare ancora avanti.
Basta osservare una delle foto che le sono più care, ”La ragazza col pallone”: siamo colpiti da questa bambina dallo sguardo intenso e corrucciato, quasi di sfida, un braccio magro che sorregge un pallone e l’altro spinto verso l’alto con in mano mille lire. Una bambina che gioca a calcio tra i compagni maschi, ma che si tiene fieramente stretto il pallone è una foto scattata nel 1980 nel quartiere La Cava della sua città. È lei stessa a ricordare quel momento alla trasmissione Chi l’ha visto, dove qualche mese fa ha rivolto un appello (conclusosi positivamente) per ritrovare dopo tanti anni quella bambina: “Da lontano vidi dei ragazzini che giocavano, mi alzai e corsi verso il gruppetto. Come sempre avevo la macchina fotografica al collo. Mi colpì questa bambina dagli occhi profondi. Questa è diventata la mia foto più famosa, più di quelle di mafia. Ha accompagnato una parte della mia vita. Per me lei era la bambina che ero io a dieci anni. Simbolo della bellezza, dell’innocenza, del futuro, del sogno. È diventata una fedele compagna. E con me è entrata nei musei e nelle gallerie di mezzo mondo”.
Spesso la ragazzina col pallone è accompagnata dalla foto di un altro bambino, più o meno della sua età, diventato invece metafora del volto tragico di un’infanzia privata troppo presto dell’innocenza. 1982, piazzola di un quartiere popolare: anche qui un bambino – maglioncino e calzoncini corti – gioca, ma il suo gioco ci fa rabbrividire, troppo simile a quanto succede ancora oggi tra i vicoli e i quartieri di tante città: una calza per nascondere i lineamenti del volto, il corpo seminascosto dietro un muro per poter meglio nascondersi, le braccia tese che imbracciano una pistola e l’attenzione tutta tesa a mirare il bersaglio nascosto ai nostri occhi. “Il gioco del killer” è il titolo: un gioco crudele che ci atterrisce. Accanto al titolo si legge: “Amo la mia terra, con tutte le sue contraddizioni e sento di dover viverla in prima persona in tutti i modi, opponendomi anche all’orrore, quello pubblico e quello privato. La sento malata e mi fa arrabbiare. A volte vorrei andarmene, ma poi scopro di amarla quasi morbosamente. Ho una macchina fotografica in mano, ho me stessa e metto tutta me stessa in queste foto: la fotografia la vivo come acqua dentro la quale mi immergo, mi lavo e mi purifico. Così poi riesco a scoprire la verità”.
Ha cominciato presto, Letizia, a stare in prima fila, ha cominciato fin da giovane e non è stato facile per lei, donna, in Sicilia, in piena guerra di mafia. Racconta spesso di come nel 1969, assunta trentenne al quotidiano L’Ora, sia stata accolta con supponenza o con malcelati sorrisetti dai colleghi tutti maschi. E fin dall’inizio, per renderle la strada ancora più in salita e certamente con l’intento di dissuaderla a continuare il lavoro, la spediscono ovunque ci sia un morto ammazzato: da questo momento spariscono dalla sua vita i sabati e le domeniche, Pasqua e Natale, il giorno e la notte. Perfino la polizia vorrebbe allontanarla, addirittura la prima volta gettandole a terra la macchina, gridando: Via di qui che è scoppiato il caos! E il caos erano sette morti. “Pensavo che fosse un episodio sporadico – confida – in realtà era l’inizio di quindici anni di morti per strada”. Ben presto tutti cominciano a conoscere e stimare la giovane intrepida fotografa, tanto che il capo della Squadra mobile di Palermo, Boris Giuliano, le dà una corsia preferenziale, quasi adottandola come prima e a volte unica reporter di tutti i delitti di mafia, comprendendo il forte intento civile, il coraggio e l’assoluta correttezza professionale che la animava. E sarà proprio lei, fra i primi ad accorrere nella pasticceria dove la vittima è proprio il suo amico Boris Giuliano.
Nel suo tavolo di lavoro balza all’occhio una foto a cui è molto legata, una delle poche che non sia stata lei a scattare: riconosciamo il suo caschetto e la sua frangetta allora castano scuro, il viso è giovane e sorride parlando col suo interlocutore, Paolo Borsellino, a cui era legata da un rapporto di profonda stima e ricambiata complicità. È questa forse l’ultima foto del giudice prima della tragica autobomba di via D’Amelio il 19 luglio 1992. Nelle foto di Letizia sfilano tutti i protagonisti di quegli anni cupi, da vivi e da morti. Ci sono gli eroi e i loro antagonisti dichiarati: Boris Giuliano, Piersanti Mattarella, Totò Riina, Giovanni Falcone.
C’è però una foto diventata un’icona dei nostri tempi, il ritratto di una donna che per amore ha saputo trasformare la sua fragilità e la sua discrezione in audace fervore di denuncia. È Felicia Impastato, la mamma di Peppino, ucciso a Cinisi il 9 maggio 1978, lo stesso giorno dell’assassinio di Aldo Moro. Lei, donna, madre, siciliana, piuttosto che rinchiudersi in casa a piangere nella solitudine il dolore di aver perso tragicamente prima il marito e poi il figlio, ha voluto con tutta se stessa rendere il mondo partecipe della sua tragedia. Felicia come gesto di estrema resistenza ha aperto le finestre e le porte di casa a quanti hanno voluto e ancora oggi vogliono condividere dolore e memoria, perché essi potessero diffondersi anche negli angoli più remoti del nostro Paese. E Felicia, nella sua semplicità e nella sua tenacia di madre, fin che è stata in vita ha messo al centro della testimonianza – in particolare rivolta a quei ragazzi che le chiedevano cosa potessero fare per contrastare le mafie – “il male assoluto”: “Tenete la testa alta e la schiena dritta” e, lei che aveva frequentato soltanto le elementari, aggiungeva: “Studiate, perché studiando si apre la testa e si capisce quello che è giusto e quello che non è giusto”.
Poteva una donna come Felicia non imprimersi sul cuore prima che sulla pellicola di Letizia Battaglia? Eccola: un volto mite e doloroso, precocemente invecchiato, le mani intrecciate che spiccano nel nero dell’abito, seduta sul divano da cui emerge la foto del figlio, quasi per continuare a vivere con lui in quella quotidianità drammaticamente spezzata. Quasi una “Pietà” dei nostri tempi – la madre col figlio innocente morto assassinato – e non a caso di “pietas” si parla a proposito dello sguardo con cui Letizia, attraverso l’obiettivo, guarda il mondo, quel sentimento di far proprie le sofferenze altrui che, come dicevano gli antichi, rende l’uomo gradito e caro agli dei. E colmo di pietas è pure lo guardo con cui partecipa alle feste religiose, così barocche nell’espressione dei gesti e nel culto delle immagini, così eccessive nello svolgersi delle processioni. Anche qui il suo sguardo si posa sulle donne: bastano i piedi, vecchi, sporchi, contorti… e possiamo immaginarla quella madre che sta salendo in ginocchio una ripida sconnessa scala di pietra. Quale dolore, quale grazia, quale ringraziamento esprime quella fatica? E quanta discrezione, da parte dell’obiettivo, nel non voler ritrarre il viso, nel rispettare quel volto segnato dallo sforzo, dalle speranza, forse dalle lacrime, nell’astenersi da ogni facile giudizio sulla religiosità popolare. “Io sono una persona, non sono una fotografa. Allora diciamo che sono una persona che fotografa, che ha avuto l’amore e che l’ha dato e non solo ai suoi tre figli, ma a ogni essere umano che, nel bene come nel male, ho voluto fotografare”. Un autoritratto che è una dichiarazione d’amore alla vita e al mestiere che ha scelto… con Letizia e sempre in Battaglia!
Una mostra fotografica di Letizia Battaglia è in corso alla Galleria Tre Oci di Venezia fino al 20 agosto 2019
Chiara Magaraggia