“Non ti ho fatto né celeste né terreno”

06
Ott

Una scelta di vita in nome della dignità e dell’umanità

Ancora una volta fra Giovanni da Fiesole, il Beato Angelico, fa parlare col colore e col pennello i personaggi affrescati sulle nude pareti delle cellette del convento domenicano di San Marco a Firenze, il luogo dove ha trascorso gran parte della sua vita. Due donne, le due sorelle evangeliche: Marta e Maria. Da profondo teologo, ogni dettaglio in lui assume un significato simbolico: Maria è tutta chiusa nel suo grigio mantello, il colore della saggezza, della dignità, della meditazione; il suo viso e i suoi occhi sono chini sul libro, in attesa di potersi sedere ai piedi di Gesù e di ascoltarlo quando entrerà nella sua casa. Marta è vestita con i colori della vita attiva, dell’amore esternato, il rosso e il verde: i suoi occhi esprimono curiosità, attesa del Maestro a cui, con premura e attenzione, offrirà una calda ospitalità. C’è un dettaglio che il pittore evidenzia: Marta ha le mani giunte. È come se l’Angelico andasse oltre le parole evangeliche, negasse la contrapposizione fra vita contemplativa e attiva con cui, in modo spesso affrettato, viene letto l’episodio. Proprio perché finalizzata alla meditazione personale del frate nel raccoglimento della sua cella, la figura di Marta è modello per i domenicani di una vita di accoglienza e di presenza in mezzo alla gente, che non rinuncia però mai alla preghiera. In qualche modo Marta, nell’itinerarium ad Deum domenicano, è il superamento della contemplazione chiusa in se stessa. Ed è un percorso di discernimento per ogni religioso far convivere con equilibrio i due aspetti della vita monastica.

La visione dell’Angelico è innovativa e profondamente legata al pensiero umanistico. Negli anni in cui fra Giovanni dipinge, Firenze vive la rivoluzione culturale dell’Umanesimo: l’uomo diventa il centro del mondo, sì, ma con la somma responsabilità che questo comporta (e che l’uomo contemporaneo sembra purtroppo aver dimenticato). Lo esprime in modo completo e perfetto un geniale filosofo e pensatore, morto a soli trent’anni, che proprio lì, nella chiesa del convento di San Marco, ha voluto riposare per sempre: Giovanni Pico della Mirandola. Nell’orazione De hominis dignitate (1485), che è il punto più alto del suo pensiero e la summa della cultura umanistica, l’autore rivive il momento della creazione dell’uomo e le parole che Dio creatore rivolge ad Adamo, e, con lui, all’umanità che verrà: “Ti ho collocato al centro del mondo perché tu possa compiutamente vedere ciò che esiste nel creato. Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché tu stesso, quasi libero e sovrano artefice del tuo destino, ti scolpissi in quella forma che avrai preferito. Potrai degenerare nelle forme inferiori, le creature brute, oppure potrai, per decisione dell’animo tuo, elevarti alle forme superiori che sono divine”. L’essere umano è qui esaltato per la sua facoltà più elevata, il libero arbitrio, con cui può egli stesso divenire divino o discendere nell’abisso del male: unica creatura a cui sia concesso di determinare il proprio destino e, in senso allargato, quello dell’intero mondo. È la sintesi perfetta della cultura classica e di tutta la tradizione ebraico-cristiana.

Il pensiero corre a un significativo passo di 1Sam 24, in cui David è inseguito dal re Saul che, alla testa di tremila uomini, vuole scovarlo per ucciderlo. Nell’oasi di En-Ghedi, verde e fiorita per le fresche cascate che scaturiscono dalle rocce, il sovrano si apparta in una grotta, proprio dove, nel fondo, era nascosto David, che ha ora l’opportunità di ucciderlo. I suoi uomini lo esortano perché egli agisca, ma, con il cuore che batte, il giovane si limita ad alzare la spada solo per tagliare un lembo del mantello, motivando così il suo gesto: “Mi guardi l’eterno dal fare questa cosa al mio signore, all’unto dell’Eterno, dallo stendere la mia mano contro di lui, perché è l’unto dell’Eterno”.

Lo stesso discernimento nell’esercizio del libero arbitrio che più di duemilacinquecento anni dopo sembra ripetersi in ben altro contesto: siamo nel gelido gennaio del 1945, negli ultimi mesi della Seconda guerra mondiale, alcuni giorni prima che l’esercito sovietico entrasse ad Auschwitz. Più di 80.000 internati, appena capaci di reggersi in piedi, coperti di stracci, sono costretti a intraprendere quella che è passata drammaticamente alla storia come “marcia della morte”, perché le strade gelate della Polonia sferzate dal vento e dalla neve sono disseminate dei cadaveri di prigionieri incapaci di reggere al gelo o uccisi da un colpo di pistola di un SS. Destinazione: i lager della Germania, dopo la distruzione di forni crematori e documenti, perché i liberatori non devono conoscere quale inferno sia stato Auschwitz. Fra queste migliaia e migliaia di “relitti umani” c’è una ragazzina di appena quindici anni, da più di un anno reclusa nel campo di sterminio. In un momento particolarmente drammatico della marcia la pistola cade dalle mani di un soldato, a sua volta scivolato. La ragazza potrebbe raccogliere l’arma, uccidere il suo aguzzino, scaricare con questo gesto tutti i sentimenti di odio e vendetta che porta in sé. Un attimo per decidere: cedere a rancore, oppure… Liliana Segre racconterà tante volte questo atto, che lei stessa ritiene determinante per la sua vita futura. “Se avessi sparato, sarei diventata come lui, un essere dominato dall’istinto di odio e bestialità. Io non volevo diventare così e solo in questo modo, salvando la mia dignità e la mia umanità, ho poi potuto ricostruire la mia vita”. “Potrai degenerare nelle forme brute o elevarti alle forme celesti…”. L’eco delle parole di Pico della Mirandola, l’eco del gesto del lembo del mantello sembrano risuonare nelle desolate lande della morte. Il libero arbitrio come segno di un’umanità che pur nelle condizioni estreme sa vincere sulla brutalità.

Sono passati ottant’anni da quei momenti, fra i più feroci che la storia abbia scritto. Tante ferite ancora rimangono, come segno incancellabile delle aberrazioni di cui l’uomo sia capace. Tutto il crinale appenninico di quella che è stata la Linea Gotica è ancora oggi segnato, come una via crucis, da decine e decine di stragi nazi-fasciste, che hanno bagnato quelle contrade del sangue di innocenti vittime civili. Della strage (più di 80 morti) avvenuta nel piccolo borgo di San Polo nella Val di Chiana (Arezzo), la giornalista tedesca Laura Ewert è venuta a conoscenza casualmente solo qualche anno fa durante un suo viaggio in Toscana. Ma ciò che l’ha sconvolta è scoprire che il crimine è stato commesso per ordine del tenente tedesco Wolf Ewert, suo nonno. “Quando ho scoperto cosa era accaduto sono stata sommersa da tristezza, dolore e vergogna. Mi sono fatta molte domande sulla mia famiglia, sul perché non mi abbiano mai parlato o affrontato tale argomento. Perché non siamo andati a San Polo per parlare con chi ha vissuto la tragedia, chiedere perdono, immedesimarci in qualcosa per cui è difficile trovare parole”. Il 14 luglio scorso, per l’ottantesimo anniversario di uno degli episodi più atroci e ancora poco conosciuti dell’occupazione nazista, Laura era lì, nel paesino devastato, a piangere davanti al monumento che porta incisi i nomi delle oltre ottanta vittime, ad abbracciare tra lacrime e sorrisi i loro figli e nipoti, a farsi abbracciare da loro.

Quel discernimento che è mancato al nonno quando ha scelto di incendiare le case del borgo, quel discernimento che sta mancando nelle tante guerre che anche oggi stanno devastando il mondo, quel discernimento che, forse, con un momento di pausa, di ascolto della propria coscienza e della propria umanità, potrebbe accendere un bagliore di luce anche nelle tenebre più fitte.

Chiara Magaraggia