Una donna che non può tessere il suo futuro, nel percorso dedicato alle “donne manzoniane”
“Entrarono nel parlatorio… Lucia, che non aveva mai visto un monastero, guardò in giro. E vide una finestra con due grosse e fitte grate, e dietro a quelle una monaca ritta. Il suo aspetto, che poteva dimostrare venticinque anni, faceva a prima vista un’impressione di bellezza, ma d’una bellezza sbattuta, sfiorita e, direi quasi, scomposta […] Quella fronte si raggrinzava spesso, come per una contrazione dolorosa, e allora due sopraccigli neri si ravvicinavano, con un rapido movimento” (I promessi sposi, cap. IX).
Due giovani donne si confrontano: l’una curiosa di scrutare l’altra. Troppo semplice dire: la vergine e la peccatrice, la signora e la popolana, l’innocente e la colpevole. Non è certo questo l’intento di Manzoni. Nella lunga e sofferta vicenda che l’ha riportato alla fede, ha anch’egli sperimentato speranze e cadute, la serenità e la depressione, la tentazione di dividere con un taglio netto il bene e il male presente in ogni essere umano. Si è sentito lui stesso, forse, insieme Lucia e Gertrude, la Monaca di Monza. Questa descrizione con pochi tratti coglie l’inquietudine, la solitudine, la sofferenza di questa giovane donna e per raccontare la sua storia dedica ben due capitoli del romanzo. È significativo che il primo aggettivo di cui fa uso sia “infelice”: “La nostra infelice era ancora nascosta nel ventre della madre, che la sua condizione era già irrevocabilmente stabilita. Si trattava soltanto da decidersi se sarebbe un monaco o una monaca, decisione per la quale faceva bisogno, non il consenso, la sua presenza”. Parole implacabili e agghiaccianti, che negano qualsiasi libertà di scegliere ed essere se stesso o se stessa. Una predestinazione, totale, assoluta. Un futuro già tessuto fin dal concepimento. Tutto ciò che sarà dopo dipende da questa premessa indiscutibile. Una programmazione sistematica, una manipolazione psicologica, pilotata dall’ipocrisia di tutti coloro che la incontrano, familiari e uomini, donne di Chiesa, ancora più feroce perché dà alla giovanissima Gertrude l’illusione che comunque dipenderà da lei quel sì o quel no che deciderà il suo futuro. È Dio il grande assente in questo assedio alla fragile volontà. Al no del cuore, della mente, del corpo non corrisponderà mai il no della voce. “Dopo dodici mesi di noviziato, pieni di pentimenti e ripentimenti, si trovò al momento della professione, al momento cioè in cui conveniva, o dire un no più strano, più inaspettato, più scandaloso che mai, o ripetere un sì tante volte detto; lo ripeté, e fu monaca per sempre”. È scrupolosa la ricerca storica di Manzoni, magistrale lo scavo psicologico. E se nella prima versione del romanzo si soffermava con ricchezza di dettagli sulla china che porterà Gertrude alla colpa fino al delitto, sceglie poi tre sole parole che dicono tutto: “La sventurata rispose”. Non giudica, non assolve, non condanna, non giustifica. Ma la pietas verso l’innocente violata che diventa colpevole rimane nell’animo dei lettori.
Chiara Magaraggia