Nel blu dipinto di blu

22
Apr

L’ho vista da lontano e la sua grazia illuminava l’atmosfera soffusa della sala. Così leggiadra che fra centinaia di capolavori è lei l’icona del Museo dove è ospitata. Il profilo perfetto incorniciato dai riccioli biondi lasciati liberi dalla crocchia intrecciata, l’incarnato di perla appena lumeggiato da qualche tocco di pennello rosa-oro, la posa eretta e nobile vengono valorizzati dall’elegante veste di damasco ricamato di un’inconsueta tonalità giallo-arancione, indossata sopra il corpetto dai ricami floreali intrecciati a nastri bianchi. Un unico gioiello: una spilla con perle e rubino incastonati nell’oro. Le mani stringono un fazzoletto: un gesto che svela una leggera inquietudine, la stessa che ritroviamo nella lieve ombra del volto dolce ma privo di sorriso. La brillantezza dei colori è accentuata dalla mensola scura di sfondo, dove spiccano un rosario di corallo e un piccolo libro dalle pagine allargate. E ben visibile l’iscrizione latina che elogia le virtù: “Arte, volesse il cielo che tu potessi rappresentare il comportamento e l’animo, non ci sarebbe in terra tavola più bella. 1488”.

Il pittore fiorentino Domenico Ghirlandaio non ci rivela il nome, e forse è proprio per questo che nella mia fantasia l’immagine dell’ignota gentildonna si sposa con la prima misteriosa voce femminile della poesia italiana, la Compiuta Donzella, vissuta nella fiorente e colta Firenze del Duecento. Due secoli separano le due donne, ma la suggestione del ritratto fa sì che per me la poetessa non abbia altro volto che questo. Di lei ci sono rimaste sole tre poesie, nessuna notizia certa della vita, tanto che è stata messa in dubbio perfino la sua esistenza, ritenendo che, chissà, forse è solo la finzione di un poeta calatosi nei panni – o nella penna – femminili. Solo da pochi anni gli studi sulla scrittura delle donne sta restituendo a Compiuta i suoi versi. E sono versi ancora acerbi, così com’è acerba la lingua fiorentina in cui sono scritti, ma esprimono aspetti della vita femminile tanto consueti nel Medioevo occidentale e inconsueti oggi, quanto ancora presenti in troppe realtà attuali. Una voce flebile e delicata, eccezionale per un’epoca in cui la lettura e la scrittura non erano cose da donne, ancor più eccezionale perché i versi sono scritti in sonetti, la forma poetica ultima nata, con cui esprimere emozioni e sentimenti. La prima parte del sonetto è piena di vita, di colore, di suoni festosi, di giovani innamorati: è la primavera che brilla nell’aria e intenerisce i cuori e tutto sembra lieto e luminoso. Ecco però, perentorio, il “ma”. In netta antitesi con le prime due strofe, la poetessa si lamenta perché non può, come le altre fanciulle, godere del corteggiamento e abbandonarsi alle gioie dell’amore, in quanto destinata, per volere del padre, a un uomo che non ama e di quel legame lei non ha né “disio né voglia”. Cosa ci può essere allora di più malinconico e struggente della primavera, simbolo per eccellenza di fertilità, di spensieratezza e di sorrisi?

“A la stagion che il mondo foglia e fiora
cresce la gioia in tutti i fini amanti:
vanno insieme a li giardini allora
che gli augelletti fanno dolci canti; 
la franca gente tutta s’innamora,
e di servir ciascun si fa avanti, 
ed ogni damigella in gioia dimora;
ma in me abbondan smarrimenti e pianti. 
Perché mio padre m’ha messa in errore,
e tienemi sempre in forte doglia: 
donar mi vuole a mia forza signore,
ed io di ciò non ho desio né voglia, 
e in gran tormento vivo a tutte l’ore;
perciò non mi rallegra fiore né foglia”.

(Parafrasi – Nella stagione in cui tutta la natura mette foglie e fiori cresce la gioia di tutti i seguaci dell’amore cortese: vanno nei giardini quando gli uccellini cantano dolcemente. Tutte le persone d’animo gentile si innamorano, e tutti si fanno avanti per il servizio (d’amore), e ogni damigella vive nella gioia; io, invece, sono sommersa da afflizioni e pianti. Perché mio padre mi ha messa in una situazione di smarrimento doloroso, e mi mantiene sempre in uno stato di profonda infelicità: vuole darmi marito contro la mia volontà, e io non ne ho né desiderio né voglia, e continuo a vivere in uno stato di grande tristezza; perciò non mi rendono lieta né i fiori né le foglie).

La Compiuta Donzella di Firenze dà voce alla secolare condizione delle donne, a cui era negata la libertà di scegliere il proprio destino. Una voce solitaria nell’Italia del tempo e pure negata. Eppure sono anni decisivi, questi fra XII e XIII secolo. L’Europa si sta risvegliando dal punto di vista culturale, sociale, economico, politico; i commerci, i pellegrinaggi, le neonate università, perfino le spedizioni militari sono veicolo di contatto tra popoli diversi. Anche per la condizione femminile si apre qualche spiraglio: severamente punito l’infanticidio delle bambine, istituito il sacramento del matrimonio, fissato un limite alle nozze delle ragazze a 14 anni (fino all’anno Mille sono tanti i documenti in cui si legge di bimbe di 9-10 anni fatte sposare a uomini di 20-30 anni più anziani). È questa l’epoca in cui sono scritti i primi testi in volgare che dai castelli feudali, dai conventi degli ordini mendicanti e dai palazzi cittadini della nascente borghesia sono arrivati fino a noi. E, come spesso succede, l’arte ci offre la possibilità di leggere tra le righe. L’Europa dopo il Mille fiorisce di bianche chiese dedicate alla Nostra Signora: solo in Francia sono 58! Il Sacro e il Profano cominciano ad incontrarsi: all’omaggio alla Regina del cielo corrisponde la poesia che onora la Dama del cuore, a cui ci si inchina come davanti a Maria, alla lauda alla Madonna si associa la lode alla donna amata.

Uno dei temi prediletti degli artisti diventa proprio la glorificazione della Vergine, non solo come la Theotokos delle icone, la madre seduta che tiene il figlio sulle ginocchia, ma come Regina, nella stessa epoca in cui in Europa le sovrane acquistano potere, considerazione e visibilità. È il tempo delle “donne al tempo delle cattedrali”, secondo la felice definizione della storica Régine Pernoud. E l’arte ci propone una piccola grande rivoluzione cromatica, che rivestirà, come un frammento di cielo, la rappresentazione e la considerazione del femminile. Alla metà del XII secolo l’abate parigino Suger – teologo, architetto, politico – fa ricostruire la chiesa dell’abbazia di S. Denis, nei dintorni di Parigi. Fortemente convinto che il colore sia il mezzo per cacciare le tenebre, il modo con cui la Luce (il Bene, Dio) trionfa sull’oscurità del Male (Satana), vuole che nella nuova basilica lo spazio della materia-pietra si riduca per far trionfare la luce, ovunque: con le numerose finestre, con le vetrate, con i rosoni, con gli smalti iridescenti. La sua predilezione va allo zaffiro, la pietra più rara, la gemma della resurrezione, che nella sua trasparenza lascia penetrare la luce di Dio, come la Vita vince sulla Morte. Ed ecco il trionfo del blu azzurro: colore ignorato nell’antichità – Egitto a parte – addirittura considerato “barbaro” dai Greci e poco virtuoso nel primo Cristianesimo, al punto da non apparire in alcun paramento liturgico. I maestri vetrai di S. Denis riescono a ottenere un azzurro così brillante e splendente da ricreare la trasparenza celeste dello zaffiro; per l’architetto-teologo Suger è insieme materia e luce, terra e cielo. Da questo momento il blu azzurro diventerà il colore di Maria: col mantello blu, incoronata, piena di leggiadria e di grazia femminile è Lei, per Dante, “il bel zaffiro del quale il ciel più chiaro s’inzaffira”. E diventa fonte di ispirazione per poeti e artisti, prediletta dalle donne che in Lei, la ragazza di Nazaret figlia, sposa, madre, vedova divenuta Regina Coeli vedono la loro avvocata. “Sposa di Dio/ Signora dei cieli/ regina dei re/ luminosa e serena” canta l’antica lauda Ave, novella femina composta dai Servi di Maria nel 1271. Pochi anni dopo, la luce trasparente del blu zaffiro inonderà le navate del Duomo di Siena. Ne è autore uno dei massimi pittori del tempo, Duccio di Buoninsegna, che nel rosone sopra l’altare maggiore celebra la Vergine Assunta. La lezione della Francia è reinterpretata dall’artista in una nuova chiave che conferisce alla Vergine grande dignità umana, oltre che divina, anticipando quella collocazione del sacro in uno spazio preciso e geometrico che sarà il marchio dell’arte italiana; alla forma circolare del rosone si armonizzano i nove quadrati che compongono la scena: è come se in Maria si compisse la quadratura del cerchio, in Lei, Vergine Madre, Figlia del suo Figlio. L’azzurro, a immagine del cielo, unifica lo spazio del rosone stesso, conferendo unità agli episodi narrati. L’intensa luminosità della scena centrale dell’Assunzione sottolinea la compostezza assorta di Maria, così come nel comparto superiore dinamizza la scena dell’incoronazione. A rendere più prezioso il trionfo, ecco il trono di marmi preziosi decorato da candidi gigli, che sostituisce quello ligneo e che da questo momento sarà presente in tutte le Maestà, l’iconografia regale, in cui il fondo oro celebrerà la Vergine, regina degli Angeli e dei Santi.

E così, il blu azzurro diventa il colore delle donne. È elegante e flessuosa l’immagine della sposa nel momento dello scambio dell’anello, in una preziosa miniatura dei primi anni del Quattrocento. I biondi capelli raccolti a treccia sono incorniciati da un cappello di leggere piume. Ma ci colpisce soprattutto la raffinatezza dell’abito: una sottoveste dorata sormontata da una candida gonna e sopra la bellissima sopravveste di impalpabile seta azzurra ricamata, che con la bianca mano della donna tiene sollevata. Il confine tra terra e cielo sembra attenuarsi.

C’è un’opera che sembra marcare un’epoca e che ancora oggi solo pochi conoscono, soprattutto in Italia. L’autrice è una donna, Cristina de Pisan, nata a Venezia nel 1365. Il padre, illustre medico laureato all’Università di Bologna, si trasferisce ben presto alla corte di Francia e a Parigi lei viene educata alle lettere, alla poesia, alla musica, alla scienza, acquisendo una cultura rara per una donna dell’epoca. Sposa a 15 anni, madre di tre figli, rimarrà vedova a soli 25 anni e il dolore per la morte dello sposo le suggerirà versi di struggente nostalgia, in cui la sua solitudine assume accenti di dolente modernissima sincerità: “Sono sola e sola voglio rimanere/ Sono sola, mi ha lasciato il mio dolce amico,/ sono sola, dolente e triste/ sono sola alla porta o alla finestra/ sono sola, chiusa nella mia stanza/ sono sola duramente umiliata/ sono sola, dimenticata da tutti/ sono sola, più nera del nero/ sono sola, senza il mio dolce amico/ abbandonata”. Senza la protezione del padre, anch’egli scomparso, e del sovrano che proteggeva la famiglia, con la madre inferma da accudire, sola, in tempi in cui per una donna onesta era d’obbligo la tutela maschile, è capace di vivere un’autentica metamorfosi. È la svolta dell’autonomia e dell’intraprendenza. Diventa un’abile calligrafa, tanto da gestire presso l’Università della Sorbona un’apprezzata bottega di scrittura dove operano amanuensi, miniatori, rilegatori, copisti. Ma Cristina non dimentica la sua passione per la scrittura. Nei primi anni del Quattrocento, davanti a tanta letteratura che vede nella donna la seduttrice, la vittima d’amore, la sottomessa, si dedica alla composizione di un’opera in cui deliberatamente vuole opporsi “a tutti quelli che sembrano parlare con la stessa bocca, tutti d’accordo nella medesima conclusione, che il comportamento delle donne è debole e incline a ogni vizio… Una donna intelligente riesce a far di tutto e anzi gli uomini ne sarebbero molto irritati se una donna ne sapesse più di loro. Lo ripeto: se ci fosse l’usanza di mandare le bambine a scuola e di insegnare loro le scienze come si fa coi bambini, imparerebbero altrettanto bene e capirebbero i segreti di tutte le arti”. Nasce così La Città delle Dame, in cui immagina una città fortificata, costruita secondo le norme dettate da Ragione, Rettitudine e Giustizia, in cui a governare sono le donne: sante, eroine, poetesse, scienziate, sovrane e in cui la parola “dama” non indica più nobiltà di sangue, ma onestà, consapevolezza, vivacità intellettuale. Con il formidabile apporto delle tante risorse fresche e creative che le donne possono offrire, Cristina costruisce la sua utopia femminile: la romana Lucrezia, suicida dopo lo stupro, ispira una legge “giusta e santa” che condanni gli stupratori, la poetessa greca Saffo diventa esempio alle donne per impegnarsi duramente nello studio, S. Caterina d’Alessandria esorta tutte a dedicarsi alla filosofia e alla teologia. Consapevole della forza che le immagini rivestono in una società dove solo pochissimi sanno leggere, Cristina orna il suo libro di splendide miniature, in cui lei è sempre presente, col suo abito azzurro e l’acconciatura bianca che ricorda quella delle fate, pronta a costruire, zappare, consigliare, insegnare, scrivere. Solo di recente La Città delle Dame è stato tradotto in italiano e nel 2010 Stefania Sandrelli vi ha dedicato il suo primo film da regista. Solo adesso, dopo 600 anni, il tempo sta ridando finalmente vita e voce a Cristina e spazio alle sue donne.

C’è proprio da stupirsi, allora, se per molti la Compiuta Donzella di Firenze non è mai esistita? E che il “mio” ritratto della dama fiorentina non porti traccia d’azzurro?

Chiara Magaraggia

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