Il mantello della Misericordia

16
Apr

“Salve, Regina, Mater misericordiae, / vita, dulcedo et spes nostra, salve”. E’ da poco passato l’Anno Mille quando nelle abbazie benedettine, dopo compieta, risuonano le parole di questo antico inno, una delle più antiche preghiere dedicate alla Vergine, cantato secondo i modi del gregoriano. L’Europa sta faticosamente uscendo da un periodo di ferro e di fuoco: guerre, saccheggi, invasioni, carestie hanno spopolato le città, svuotato le scuole, devastato le campagne. Il sistema feudale, ideato da Carlo Magno, sta ora portando più difesa nei confini e assicurando maggiore sicurezza alla popolazione. Cominciano ad affermarsi le lingue nazionali, si riaprono le vie dei commerci e  dei pellegrinaggi e, come scrive il cronista Rodolfo il Glabro: “Era come se il mondo stesso, scuotendosi, volesse spogliarsi della vecchiezza per rivestirsi di un bianco mantello di chiese. Nasce lo stile romanico: possente, robusto, protettivo. E molte di queste nuove chiese sono dedicate a Maria, la Nostra Signora. E’ come se dopo tanta rude violenza si diffondesse un desiderio di ingentilimento, di compassione, di protezione: il sentimento religioso riscopre la radice femminile e materna, che assume il volto di Maria, “mater omnium”, non solo di Cristo e “advocata nostra”. Nella Salve Regina i nuovi tratti sono tutti presenti: la misericordia, la vita, la dolcezza, la speranza. E nel finale l’invocazione si fa più accorata: “O clemens, o pia, o dulcis Virgo Maria”, clemente, pietosa, dolce. Se ne ricorderà Dante, nell’ultimo canto del Paradiso, quando, nella celeberrima preghiera alla Vergine, così si rivolge a Lei: “In te misericordia, in te pietate, in te magnificenza, in te s’aduna quantunque in creatura è di bontate“ (in te si assomma tutta la bontà possibile in una creatura).

L’uomo medievale cerca allora di dare un volto a Maria, per poter rivolgersi a Lei con maggiore intimità, con familiarità, con la certezza di sentirsi guardato e compreso dai suoi occhi misericordiosi. E’ così che si diffonde ovunque l’iconografia della Mater Misericordiae. Gli artisti si ispirano ad una consuetudine presente nell’Europa feudale: era tradizione nei castelli applicare il cosiddetto privilegio della “protezione del manto”. La feudataria, con il solo gesto di allargare il suo mantello, poteva concedere aiuto a bisognosi e perseguitati, persino, in alcuni casi, concedere la grazia a un condannato a morte. Con la rinascita delle città, l’immagine si definisce con una caratteristica comune nei più diversi paesi europei: le dimensioni di Maria sono sempre molto più grandi rispetto agli uomini, per poterli accogliere tutti sotto il manto, per essere anche visibilmente la grande  madre per tanti piccoli figli. Fra tutti, il capolavoro assoluto è la grande tavola lignea di Piero della Francesca, dipinta intorno al 1450 e inserita nel grande Polittico della Misericordia. Il fondo oro rende ancora più maestosa la figura della Vergine e le conferisce grande regalità. Ma il senso dell’opera non è quello di esaltarne la maestà: basta alzare gli occhi verso la Crocifissione perpendicolare alla grande tavola. Lì Maria è ai piedi della Croce, con le braccia alzate verso il Figlio, chiusa in un dolore, che si esprime proprio nel gesto delle mani, capace di “perforare” l’oro dello sfondo, complementare a quello delle braccia spalancate di Giovanni. E’ il momento in cui Cristo sta affidando Maria alle cure del-l’Apostolo prediletto e, proclamando Giovanni il nuovo figlio, di fatto fa di Lei la madre di tutti. Questo si avvera nell’immagine sottostante. La dignità della grande figura dal semplice abito rosso, che ha la solidità di una colonna, e del mantello – lo stesso dell’immagine sovrastante – che si fa robusta tenda protettiva, si specchia nel perfetto ovale del viso, appena incorniciato da un velo sottilissimo, trasparente diaframma che separa e, insieme congiunge, lo spazio dell’uomo con la luce-oro propria di Dio. Lo sguardo rivolto al basso evidenzia come la sofferenza della madre a cui è stato strappato l’unico figlio si sia distillato in compassione verso l’umanità smarrita, indifesa, angosciata. Ma la grandezza di Piero è anche quella di trasformare “l’umanità” astratta in uomini e donne in carne e ossa, con visi che sono veri ritratti, con abiti e atteggiamenti che definiscono differenti provenienze e categorie sociali. Fra essi, a sinistra, col viso rivolto al volto di Maria, il pittore rappresenta se stesso. Dall’altra parte, tante tipologie di donne: la ragazza dai capelli sciolti, la signora sposata dalla sobria acconciatura, la vedova, la religiosa. “Com’è commovente per me quella Madonna… Se la gente volesse capirne il significato, questo manto che unisce persone di tutte le specie, e tutto insieme in una volta […] E cosa significa tanta gente sotto quel manto? Proprio questa speranza, che la vita eterna cominci, nei nostri affetti, fin da ora”. Così  uno dei tormentati personaggi dello scrittore vicentino Guido Piovene esprime il suo sentimento davanti ad un’altra veneratissima immagine della Mater Misericordiae, quella conservata nel Santuario di Monte Berico di Vicenza. Nel Polittico di Piero della Francesca ciò che colpisce immediatamente lo spettatore è la straordinaria figura dell’uomo incappucciato di nero. Chi è questo inquietante personaggio?

Torniamo al periodo storico da cui siamo partiti: l’Italia in cui, molto presto rispetto ad altre aree europee, le città rinascono e cominciano gradualmente ad autogovernarsi, decidendo dapprima l’uso comune dei boschi e delle terre, dei pascoli, degli attrezzi agricoli, organizzando insieme l’aratura, la semina, la vendemmia, i mercati, le fiere. Proprio da questa partecipazione attiva alla vita di comunità nascono le prime Confraternite, associazioni volontarie di cittadini di differente estrazione sociale, animate da spirito di carità, che ispirandosi alle opere di misericordia, istituiscono i primi ospedali, orfanatrofi, assistono le vedove, portano conforto ai prigionieri e curano le sepolture dei più poveri. E’ il primo nucleo del welfare che da allora caratterizzerà la vita sociale e civile dell’Europa. Così, particolarmente nelle città dell’Italia centrale – Toscana e Umbria su tutte – si sviluppano le Misericordie. La prima di cui abbiamo documenti scritti è quella di Firenze che, nel 1244, con grande partecipazione di cittadini, fa celebrare la Messa della Pace per mettere tregua alle sanguinose lotte tra Guelfi e Ghibellini. “Misericordia”: miseris cor dare (donare il cuore al misero, al bisognoso). Ancor oggi, nella Piazza Duomo del capoluogo toscano, è attivissima la sede centrale della Misericordia, con ambulanze e personale pronti ad intervenire ad ogni emergenza. E’ proprio la Misericordia di Borgo San Sepolcro a commissionare al pittore, nel 1445, il polittico dal fondo dorato. Ma…chi è l’incappucciato di Piero della Francesca? L’inquietante figura nascosta sotto il nero cappuccio è uno dei confratelli anonimi che si dedicavano ad una delle opere di carità più difficili da svolgere: assistere i prigionieri nelle ultime ore di vita e accompagnarli fino al patibolo, prendendosi poi cura dei poveri resti. “Visitare i carcerati e seppellire i morti” nel Medioevo accomunava in un’unica azione la compassione verso i più disprezzati, i colpevoli di azioni malvagie di cui la società vuole sbarazzarsi violentemente, con la pietas che è dovuta ad ogni corpo, perché destinato alla resurrezione. Sono gli stessi incappucciati che nelle processioni e sacre rappresentazioni del venerdì santo accompagnavano Cristo morto al sepolcro.

E’ uno degli episodi più conosciuti, quello che Caterina da Siena racconta in una lettera al suo confessore e confidente Raimondo da Capua, Siena, 1377. Un giovane perugino, Niccolò di Toldo, viene condannato con l’accusa di spionaggio. In prigione, disperato, non vuole ricevere visite, tantomeno di uomini di Chiesa che tentino di confessarlo. E’ Caterina a esprimere il desiderio di incontrarlo, rimane con lui, ritorna più volte. E avviene ciò in cui nessuno credeva: Niccolò è confortato, si abbandona alla volontà di Dio, si sente forte; ha solo il timore di non avere lo stesso coraggio il giorno dell’esecuzione. “Ma la smisurata misericordia di Dio lo ingannò” è scritto nella lettera. Attraverso l’amore umano, l’amicizia appassionata di Caterina, il condannato scopre un amore più grande da cui si sente abbracciato. La narrazione successiva è da brividi, anche per noi oggi. Lettori e scrittori di ogni tempo ne sono stati sconvolti. “La prima volta che lessi quella lettera ne rimasi quasi disgustato. Provai ribrezzo per quel sangue” scrive Luca Doninelli. Il giorno dell’esecuzione il giovane “sereno e forte” va al suo destino come “un agnello mansueto”. Lei gli resta vicino fin sul patibolo, gli fa il segno della croce, riceve la testa mozzata nelle sue mani, la ripara sotto il mantello: rimarrà sempre in lei l’odore di quel sangue. Il gesto fa scandalo: gli antichi tabù del sangue, della morte cruenta, della dannazione che pende su chi muore giustiziato sono vinti dalla giovane mantellata (terziaria domenicana) che divide il suo tempo fra vita contemplativa fatta di estasi e visioni e una vita attivissima che la vede impegnata nelle vicende della sua città e, ad Avignone, paladina del ritorno del papa alla sede apostolica di Roma. Attorno a lei, “la bella brigata” – come lei la chiama – di artigiani e professionisti, laici e religiosi, gentildonne e popolane: veri “Caterina boys” delle opere di misericordia! Eppure…nella rappresentazione artistica della vita di Caterina, il grande assente è proprio l’episodio di Niccolò di Toldo. Troppo ardito, al limite dell’eresia, soprattutto per una donna. Meglio rappresentare Caterina immersa nelle visioni, o ai piedi della Croce, diafana per le penitenze e  sfinita dai digiuni, bisognosa di essere sorretta. Più rassicurante, fragile  e perciò esemplare.

Il coraggio di Caterina ci porta ad una delle figure più alte del mito greco: l’eroina dell’etica impressa nella coscienza, degli imperativi categorici che vengono prima di quelli umani per cui ha il coraggio, giovanissima, sola contro la viltà di tutti, di sfidare il tiranno. Antigone è la figlia di Edipo e della madre di lui, Giocasta. Figlia incestuosa, è erede incolpevole di un tabù che la inchioda alla solitudine. Quando uno dei suoi fratelli, accusato di tradimento, viene ucciso per mano dell’altro fratello, ecco l’editto del tiranno di Tebe, Creonte: nessuno osi seppellire il corpo di Polinice; corvi e bestie selvagge devono fare scempio dei resti del traditore. Chi trasgredirà, sarà ucciso. Ma Antigone ubbidisce solo alla sua coscienza, all’affetto che la lega al fratello, ma prima di tutto all’idea stessa di umanità, che esige per ogni essere umano una dignitosa sepoltura: “Non sono queste leggi di oggi, non di ieri, vivono sempre, nessuno sa quando comparvero e come”. La trasgressione di Antigone riveste un significato eccezionale nel mondo greco, dove la vita pubblica e la politica sono appannaggio esclusivo degli uomini; il suo dire no non riguarda perciò solo la disubbidienza al re, ma le convenzioni sociali che vogliono le donne in atteggiamento di passiva sottomissione. E proprio per questo il suo gesto merita la morte.

Se ne andrà verso la buia caverna dove sarà rinchiusa per sempre, Antigone, rimpiangendo la sua giovinezza spezzata, le gioie dell’amore di cui mai potrà godere, i sogni e le speranze soffocate. Ogni volta che il suo dramma viene rappresentato nei teatri di tutto il mondo, la giovinetta torna a vivere nel cuore di chi pone i dettami della coscienza al di sopra di ogni logica umana. E porta il nome di Antigone l’Associazione che in Italia si occupa dei diritti e delle garanzie nel sistema penale e della sensibilizzazione verso i problemi del carcere.

Alcune settimane fa, in coincidenza con la Giornata della Memoria, è uscito nelle sale cinematografiche un film – Il figlio di Saul – che ha riproposto il problema in modo sconvolgente. 1944, Auschwitz. Saul è destinato al sonderkommando, l’inferno dentro l’inferno: deve spingere donne, uomini, bambini ebrei come lui dentro la camera a gas, sentire le loro grida spegnersi e poi entrare, rimuovere i corpi senza vita destinati al crematorio. Un bambino, sopravvissuto e subito soppresso, scuote il suo estraniamento. Quella vittima innocente diventa il suo figlio adottivo; adesso Saul comprende la sua missione: lui, laico, vuole dargli una degna sepoltura, trovare un rabbino che reciti il Kaddish, la preghiera dei defunti secondo il rito ebraico. Ora anche la vita nell’inferno ha un senso, e l’eventuale morte potrà assumere un’alta dignità. Antigone può rivivere ovunque.

Ci manca un’ultima tessera per completare il mosaico in cui Piero della Francesca ci ha fatto da guida. Torniamo al Polittico della Misericordia: dalla Crocifissione in alto, alla Mater Misericordiae al centro. E sotto? Come finire se non con le “mirofore”, le pie donne, che all’alba di Pasqua, sfidando la paura e le minacce, si recano sole alla tomba del Crocifisso per offrire incensi e profumi? Eccole, nella predella (la parte in basso) del polittico, bionde, esili, incredule, sullo sfondo di un luminoso incantevole paesaggio toscano, punteggiato da castelli, ulivi e cipressi. La tomba è vuota… ma ecco, un angelo splendente annuncia loro la Buona Novella. Sono loro, le donne misericordiose, a riceverne il primo annuncio. Dal dolore, attraverso la Misericordia, può rifiorire la vita.

Chiara Magaraggia

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