Nel 2008 quando, sr. Flora e sr. Renata sono arrivate nella diocesi di Roraima, fra le tante realtà di povertà osservate, quella che emergeva più prossima al carisma di M. Giovanna, il quale ci chiama ad assumere come obiettivo primario “la salvezza e la santificazione della classe popolare femminile” (art. 8 Cost), era la situazione delle carceri, in modo particolare la realtà femminile.
Come Suore Orsoline ci siamo sentite interpellate da questa situazione di sofferenza spronandoci a muovere dei passi per iniziare le visite settimanali, e stare accanto a questa parte di umanità ferita, creata da situazioni disumanizzanti. Le donne (chiamate rieducande) sono spesso lasciate sole e senza assistenza giuridica. I diritti fondamentali non vengono rispettati: un luogo degno di una persona umana, un cibo salutare, una difesa d’ufficio quando si è impossibilitati ad assicurarsi un avvocato. Costatiamo che la maggior parte delle carcerate sono detenute per il crimine di spaccio di stupefacenti; lavoro malfamato e pericoloso è vero, ma dal guadagno facile, che permette alla mamma sola e spesso abbandonata con tre o quattro figli, di provvedere alla sussistenza della familgia. La maggioranza delle donne ci confida il loro dramma: sanno che non è giusto ma quando sentono i piccoli piangere per la fame, quel grido contorce le loro viscere materne e credono di non aver altra scelta se non quella di accettare il lavoro di “mule”, cioè trasportare la droga da una parte all’altra del paese o al di là del confine. Lo Stato di Roraima infatti ha una doppia frontiera, il Venezuela e la Guyana inglese, ed ha poche offerte di lavoro, per cui le donne diventano un’ottima opportunità per i trafficanti di usarle per gli scambi illegali: armi, droga, prostituzione.
Il nostro approssimarsi alle donne vuole essere una presenza amica che crea legami di fiducia e di mutuo aiuto per una vera riconciliazione, prima con se stesse e poi con la società. Nelle nostre visite molte sono le modalità usate: incontri personali di ascolto, di preghiera, la celebrazione eucaristica, momenti di distensione, presentazioni di film educativi (e loro non avendo molta possibilità di vedere la televisione attendono questi momenti con grande gioia). Per alcuni incontri di riflessione su temi specifici sono invitate persone esperte esterne per aiutarle a recuperare la propria identità.
Il carcere è strutturato con orari comuni e lavori ben determinati: ogni giorno c’è l’ora dell’alzata, dei servizi generali, (e alcune detenute sono responsabili di orga-nizzare l’ora dei pasti), l’ora dello studio, del bagno di sole, della preghiera personale, a seconda della chiesa di appartenenza: cattolica, battista, pentecostale, ecc.
Due giorni alla settimana (il giovedí e la domenica) hanno diritto alla visita dei parenti. Il tempo che resta è sempre molto, per cui danno spazio alla loro creatività realizzando dei piccoli lavori di artigianato (in genere il ricamo, producendo cuscini, centrini, asciugamani, tappeti, piccoli oggetti di bigiotteria come portachiavi, infradito, accessori per i capelli), sia per usare bene il tempo e poi poter vendere e così inviare alla famiglia il frutto del loro lavoro, sostenendola in accordo con la direttrice del carcere. Noi le aiutiamo nel procurare il materiale di cui hanno bisogno per lavorare, cercando poi canali per la vendita.
La visita che effettuiamo avviene ogni martedì dalle 18.00 alle 20.00. Il carcere è relativamente piccolo, per circa 70 persone, costruito con schemi maschili, ma quasi sempre è super affollato. Attualmente la presenza media di detenute si aggira attorno alle 130-140. Molte sono “preventivate”, cioè in attesa di giudizio. Come sempre questo succede con le più povere, quelle che non hanno la possibilità di pagare le multe o di avere un buon avvocato, cosí restano anche anni in attesa di giudizio, con la prospettiva (come a volte succede) di scontare la propria pena prima di essere giudicate.
Ci si stringe sempre il cuore in petto quando vediamo i bambini piccoli in quei corridoi freddi e ammuffiti. Molto spesso vi sono donne gravide che partoriscono in carcere. Possono tenere il piccolo solo tre mesi e poi viene affidato alla famiglia o alle strutture pubbliche. Sovente le mamme non hanno più notizie dei propri figli e questa è un’ulteriore grande sofferenza che va a sommarsi a tante altre della vita quotidiana carceraria. La dimensione di questa sofferenza ci spinge ad essere loro accanto facendoci ponte con la famiglia, visitandola e comunicando con loro per dare e ricevere notizie dei figli e parenti.
Oltre a questo siamo riuscite ad entrare a far parte del Consiglio Comunitario, un’entità di partecipazione e controllo nell’ambito carcerario relativo specificamente ai diritti umani dei carcerati. Partecipano a questo Consiglio rappresentanti dell’ordine degli avvocati, giudici, membri della polizia militare, della segreteria dell’educazione, della sicurezza pubblica e di vari enti non governativi che contribuiscono alle attività carce-rarie. La nostra presenza mira ad incidere sulle strutture politiche per una umanizzazione della struttura carcera-ria. Il sogno che portiamo nel cuore è far parte di questi cammini di riconciliazione e di rispetto reciproco per una reintegrazione nella società e per una scelta di vita dignitosa e serena. L’ideale ci ha stimolato ad iniziare un nuovo tipo di approccio con le detenute chiamato Giustizia Restaurativa. É un cammino di incontro dove la parte lesa e l’accusato hanno la possibilità di camminare per una riconciliazione reciproca attraverso il perdono dato e ricevuto: questo è per noi dare nuove ali alla vita.
Comunita Epifania
Sr. Renata, sr. Antonia e sr. Anna Maria