Un filo unisce le storie di maternità complicate e coraggiose di Penelope, Ida, Esma
Le strade labirintiche della Storia le hanno casualmente fatte incontrare. Tre donne che in comune sembrano non avere nulla: appartengono a epoche storiche anche lontanissime, le loro lingue sono differenti, cultura, religione e condizione sociale sono inconciliabili. Eppure sono lì, attorno a un fuoco. Ed ecco, i loro occhi per un attimo si incrociano e, con quella capacità di scrutare l’anima che molte volte le donne possiedono, ognuna scorge nello sguardo dell’altra una scheggia della propria vicenda. E non si sa come, non si sa con quale lingua cominciano a parlare…
La prima a prendere la parola possiede una strana bellezza d’altri tempi, dipinta tante volte nei vasi dell’antica Grecia, col suo profilo nobile e fiero. Dice di chiamarsi Penelope e, confida senza superbia, mi hanno fatto quasi una madre d’Europa, un’eroina senza tempo. Eppure, forse proprio voi, voi sì potete comprendere cosa ci sia al di là dei versi di altissima poesia che sono stati scritti su di me. Si scava poco su quanto sia duro il destino di una ragazza giovanissima, rimasta sola con un bambino di pochi mesi, perché il marito, re di una piccola isola di nome Itaca, è partito per una guerra che dicevano giusta. Così giusta che, per partire, è stato necessario sacrificare sull’altare una fanciulla, poco più che bambina, perché una divinità capricciosa suscitasse venti favorevoli. Ma quale dio può gradire il sacrificio feroce di una creatura innocente? E io sono rimasta sola col piccolo Telemaco che ho educato nell’ammirazione per il padre-eroe e con il suocero, anziano e fragile. Già: sono considerati eroici i condottieri che spargono sangue, non le donne che da sole devono gestire non solo la vita quotidiana, ma custodire la famiglia e i beni di casa. E non per pochi mesi, ma per venti interminabili anni, dieci di guerra e dieci di vagabondaggio per le sponde del Mediterraneo, amato da donne bellissime e odiato da divinità potenti, con nel cuore il desiderio di tornare ma anche con la voglia di conoscere sempre nuovi luoghi e fare nuove esperienze. Ma in fondo sei una regina – mi hanno detto in tanti. Sì, e in mancanza di mio marito ho dovuto combattere la dura guerra del quotidiano, governare, proteggere la popolazione, soprattutto le donne, sole come me ed esposte alle prepotenze e alle violenze dei giovani nobili e arroganti. E, passati alcuni anni, loro volevano me, volevano obbligarmi a nuove nozze per impossessarsi del potere, per legittimare, possedendo me, il loro dominio. Già, si è tanto parlato della tela, della mia fedeltà, dell’amore che mi ha spinto perfino ad allontanare da Itaca il mio unico amore, mio figlio Telemaco, pur di non esporlo a rischi mortali. È stato coraggio il mio? Sì, ma sofferto, coltivato soffocando le lacrime e lo sconforto, per dare speranza ai sudditi fedeli, per convincere le donne che non erano sole e abbandonate.
Io l’ho insegnata tante volte la tua storia – interviene Ida, piccola, esile, con il volto non più giovane dall’espressione di bambina con gli occhi dolci e spalancati. Ma forse, ubriacati dalla retorica dell’eroe, pochi hanno messo a fuoco la tua condizione di donna. E, in fondo, la mia storia, così dura e purtroppo così normale, solo una donna poteva raccontarla, ed Elsa Morante l’ha scritta con la maiuscola: La Storia. Di quelle come me si è sempre taciuto e si continua a tacere. Sono appunto “normali incidenti di guerra”. Mi piaceva il mio lavoro di maestra e, rimasta vedova da giovane, sui bambini riversavo tutto l’affetto che avevo in cuore. Ci ero rimasta quasi per miracolo nella scuola: essendo la famiglia della mamma di origine ebraica, attraverso ottusi calcoli sulla purezza del mio sangue, solo per un caso ho potuto continuare il mio lavoro. L’Italia era già in guerra, in quel giorno di gennaio, quando un soldato tedesco dal viso di bambino e dagli occhi smarriti si aggirava quasi ubriaco per le vie del quartiere di Roma dove io abitavo. Me ne stavo tornado a casa carica di fagotti e di sporte e me lo trovo davanti alle scale. Mi sento quasi paralizzata, ma lui mi precede, mi spinge dentro casa e… vi lascio immaginare il resto. E la mattina dopo, quasi staccata, alienata dal mio corpo, sono tornata a scuola e dovevo far sorridere quei bambini spaventati. Non mi sono troppo stupita, qualche settimana dopo, ma poi sì, quando ho scoperto di essere incinta e l’unica mia preoccupazione non era di abortire (il pensiero non mi ha mai sfiorato) ma nascondere il più possibile la mia condizione, e ci sono riuscita. Poi è nato Useppe, la gioia della mia vita, con quel visetto in cui un’espressione misteriosa da adulto si trasfigurava sempre più spesso in una innocenza radiosa. Nessuna fatica di quella guerra interminabile mi è sembrata eccessiva: Useppe era la mia luce e il mio sorriso, e attorno a me con tante altre donne, con uomini nascosti e ricercati, con la cagnetta Bella che si era innamorata del bambino, sotto le bombe, in rifugi improvvisati, trovavamo il coraggio di andare avanti, di sorreggerci per non cadere. Ma io, proprio io, la sua mamma, gli ho trasmesso quel male oscuro – lo chiamavano il male sacro: quelle convulsioni a cui il suo corpicino provato dai disagi non ha saputo reggere.
Cala il silenzio, lì intorno al fuoco, e Penelope allargando il suo ampio mantello copre in un abbraccio protettivo il corpo minuto di Ida e intona un’antica cantilena intrisa di dolcezza e commozione. Ed ecco, altre tante diafane sagome di donne che sembrano provenire da ogni direzione del tempo e dello spazio silenziosamente siedono attente e partecipi.
Quante volte mi sono chiesta dove mai noi donne sappiamo trovare il coraggio, anche se in situazioni cosiddette normali siamo timide, paurose, diffidenti. Poi, qualcosa che ti sconvolge e che stroncherebbe anche una quercia, ti accende dentro una fiamma mai provata. Anche la mia storia è stata raccontata da una donna e il film è stato elogiato e premiato. Mi chiamo Esma e sono nata in un paese che non esiste più, eppure anche la mia città, Sarajevo, ha una storia importante, anche se oggi è difficile riconoscere fra gli edifici ricostruiti il fasto del tempo passato. Io sono sempre rimasta qui, ho dovuto ricominciare, sia pure con la morte nel cuore… ma avevo lei, Sara, la mia irrequieta, adorata figlia adolescente. E per lei lavoravo tante ore come cameriera e donna delle pulizie in un locale scuro e fumoso. Doveva studiare, la mia ragazza… lei doveva vivere una vita serena, come i suoi compagni. E non doveva sapere… niente, niente! E invece la verità ci è saltata addosso e ha riaperto quella ferita mai chiusa. Per poter partecipare alla gita scolastica Sara doveva portare un certificato col nome dei genitori, anche se defunti. E lei non era figlia di un eroe morto in quella sporca guerra, ma di una violenza che hanno chiamato “stupro etnico”. E solo Dio sa quanto l’ho odiata quand’era dentro di me, quanto ho tentato di sbarazzarmi di lei… ma a quelle come me non era permesso di abortire. E poi, quando l’ho vista, quando l’ho accarezzata, le ho dato il mio latte… quando mi ha sorriso, allora ho ripreso a sorridere anch’io. Spero solo che Sara sappia accettare, e accettarmi. Quando è partita per la gita, dal finestrino mi ha salutato, e mi ha sorriso. Ormai sono migliaia le donne che si sono strette intorno a Penelope, Ida, Esma. E tutte si danno la mano in un grande girotondo: il girotondo delle madri coraggio.
Chiara Magaraggia